Manca ancora un tassello nella guerra – pur sempre tragica – in Medio Oriente. Dopo lo scontro del 25 agosto tra Israele e Hezbollah, di cui, peraltro, entrambe le parti hanno fornito solo versioni parziali, funzionali alla propaganda, interna ed esterna, si attende la rappresaglia iraniana, annunciata ma posposta a “tempo debito”.

Sul versante dei nemici di Israele, è evidente che né il Partito di Dio, né la Repubblica islamica iraniana, vogliono un conflitto su larga scala. Khamenei e Nasrallah sanno bene che se lo scontro si scatenasse davvero si spalancherebbero le porte dell’inferno. A quel punto, in gioco non ci sarebbe una sconfitta, ma la stessa esistenza di quel regime e di quel movimento. Sebbene difficilmente gli scontri a distanza, fatti di missili e razzi, cannonate e operazioni segrete, pur devastanti, facciano crollare i regimi.

Se si escludono blocchi economici e energetici destinati a sollevare reazioni interne, solo le truppe nemiche nelle strade cambiano radicalmente la situazione. E proprio “mettere gli stivali sul terreno” è il punto dolente per Israele.

La maggioranza sciita

Un’eventuale guerra contro Hezbollah, possibile nell’ottica della nuova dottrina della sicurezza fondata, dopo il 7 ottobre, sull’imperativo “nessun nemico al confine”, non sarebbe un conflitto con un piccolo anche se determinato gruppo islamonazionalista ma uno scontro aperto con un partito- milizia armato e addestrato meglio di Hamas. E, cosa da non sottovalutare in un’invasione che si proponga di spingersi all’interno, assai radicato nella società.

Hezbollah, infatti, è il partito-comunità del segmento confessionale sciita, peraltro, numericamente maggioritario il Libano. Certo, non ufficialmente, dal momento che l’ultimo censimento in un paese che assegna le cariche istituzionali in base ai numeri delle componenti confessionali risale al 1932, ma nella realtà sì: come sanno demografi e servizi d’intelligence.

Se quel censimento – in questo caso strumento politico anziché statistico – si facesse, gli sciiti risulterebbero maggioritari nel già maggioritario universo musulmano libanese, che conta il 60 per cento della popolazione totale, mentre i cristiani, sono sotto il 40 per cento. Emigrazione, immigrazione, profughi, guerra civile, secolarizzazione e stili di vita, boom e sboom economici, hanno drasticamente cambiato volto al Paese dei Cedri negli ultimi ottant’anni.

Eppure la lettura dominante in Occidente è che, per i suoi storici legami con la Francia e, dopo il 1958, con gli Stati Uniti, esso sia, fondamentalmente, un paese cristiano.

Strabismo politico difficile da correggere, gravido di conseguenze. Soprattutto in caso di scenari bellici.

Nasrallah

È vero che i sunniti libanesi non si riconoscono nell’egemonia degli eredi locali del khomeinismo e dei loro alleati di Amal, ma nemmeno i cristiani sono politicamente uniti, lacerati tra le posizioni antisiriane e antiraniane di Samir Geagea, leader delle Forze libanesi, e l’opportunismo trasformista che conduce autorevoli leader comunitari a alleanze con il Partito di Dio per riperpetuare la loro rendita di potere.

In questo poco borgesiano panorama di finzioni, la realtà dice che, nonostante le difficoltà e il logoramento, Nasrallah resta il vero padrone del Libano. Del resto, anche lo stallo istituzionale in corso ormai da quasi due anni sul fronte dell’elezione del presidente della Repubblica, carica che nella spartizione confessionale spetta ai cristiani, alimenta quella politica del vuoto, sin troppo pieno, occupato dal denso peso specifico di Hezbollah.

Per mettere fuori gioco un simile nemico, ben armato e con un retroterra politicamente e ideologicamente omogeneo – la linea che va da Teheran e Beirut passando per Damasco non è invenzione di astratti cartografi e appassionati cultori di geopolitica – non basta sparare micidiali missili, bombardare con l’artiglieria, usare i cannoni navali.

Bisogna invadere: come a suo tempo fece Begin, portando i Merkava a affacciarsi sulle colline di Beirut e cacciare a forza l’Olp dal paese. Ma il “Re dei re” Begin, e con lui il suo ministro della Difesa Sharon, non avevano davanti una forza strutturata come il Partito di Dio: l’Olp di Arafat era inviso a quasi tutti i libanesi per essersi trasformato in “stato parallelo” e Israele poteva contare sulle truci milizie falangiste.

Oggi la sola milizia armata è Hezbollah. Israele ha già sperimentato lo scontro con il Partito di Dio nel 2006: sa che è un avversario ostico. Quel conflitto, assai duro, è finito nello stallo militare. Anche se riuscisse a incalzare il suo vessillo giallo oltre il Litani, si garantirebbe tranquillità solo per qualche tempo, poi, in assenza di governi efficaci e amici, e con il sostegno iraniano, quelle forze si riorganizzerebbero e i razzi tornerebbero a cadere nell’Alta Galilea.

Accordo epocale o guerra

È il grande, e inconfessabile, paradosso della guerra in forma. Renderla tale la contiene ma non la esaurisce, trasformandola in fattore di ciclica instabilità. Può finire davvero solo in due casi: o per effetto di un grande accordo diplomatico che vada oltre il negoziato di Gaza – improntato sullo scambio politico tregua/ostaggi – e definisca un’intesa regionale per cui oggi non ci sono le condizioni; o in seguito a un’eclatante vittoria militare di uno dei contendenti, che stravolga gli equilibri strategici esistenti, mettendo fuori gioco l’operatività del nemico: come quella di Israele nel 1967 nella Guerra dei Sei giorni.

Lo sanno bene le stellette israeliane, consapevoli che serve a poco combattere su due fronti, al confine nord e al confine sud, a Gaza come il Libano, se, non solo non si riesce a conseguire vantaggi irreversibili ma se mancano le condizioni politiche internazionali per renderli tali.

La tentazione di Bibi

Eppure proprio questa sembra la tentazione della destra israeliana: procedere con la politica del fatto compiuto. Agire per poi gestire le conseguenze, resistendo anche alle pressioni degli alleati, Usa in testa. Non sempre è possibile farlo. Nonostante Bibi abbia spesso resistito, con l’amministrazione Biden i condizionamenti hanno pesato. Se Trump andasse alla Casa Bianca, il riottoso premier potrebbe cercare di sciogliere il nodo libanese.

Non dipanandone pazientemente i complessi intrecci, ma gordianamente, con un taglio netto che risolva le contraddizioni lasciate sul terreno dalla guerra in forma: una guerra continuamente sottoposta a indicazioni, mediazioni, dosaggi, pressioni: tali da impedire l’agognato trionfo militare. È la politica, bellezza!, per parafrasare l’Ed Hutcheson/ Humprey Bogart de L’ultima minaccia.

Quella politica che, clausewitzianamente, Bibi vorrebbe trasformare in guerra senza forma, capace di debellare davvero quella che ritiene l’ultima minaccia: l’Asse del Male rappresentata dai turbanti di Nasrallah e Khamenei.

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