L'anno nel nome di Luigi Nono è cominciato con le quattro giornate dedicate al Prometeo a Venezia, ritornato nella chiesa di San Lorenzo a quarant'anni dalla prima esecuzione del 1984, con l'ultima replica il 29 gennaio, giorno in cui il compositore avrebbe compiuto un secolo. Un evento che ha risvegliato una curiosità inaspettata, con centinaia di partecipanti che hanno assistito all'anti-opera del compositore veneziano, una «tragedia dell'ascolto» in cui, come scriveva nei suoi appunti, «è l’inudibile o l’inudito che lentamente, o no, non riempie lo spazio, ma lo scopre, lo svela».

Questo lavoro, tra le più importanti espressioni della musica contemporanea del secondo Novecento incarna il cuore dell'ultima fase della ricerca artistica di Nono, in cui il suo intento artistico, e quindi anche umano e politico, è quello di restituire complessità alla dimensione dell'ascolto, stimolando in chi vi assiste un'esperienza viva, attenta, inesauribile. È per questo che dà forma al concetto di suono mobile, con l'idea di usare lo stesso spazio come uno strumento musicale, e inglobando l'ascoltatore al centro dell'opera, attorno a cui vengono scomposti e si muovono i vari elementi, l'elettronica dal vivo, il coro, l'orchestra, le voci narranti.

Concepito in quasi un decennio dopo la realizzazione di Al gran sole carico d'amore, il Prometeo di Nono ha raccolto attorno a sé collaboratori importanti, come il direttore d'orchestra Abbado, il filosofo Massimo Cacciari, autore del libretto con i testi in italiano, tedesco e greco antico. E poi l'architetto Renzo Piano, che concepì l'enorme struttura in legno su tre livelli alta 15 metri in cui gli strumentisti potevano muoversi liberamente, con gli interventi luce del pittore Emilio Vedova (l'arca fu usata solo per la prima veneziana e per l'allestimento a Milano dell'anno successivo, per poi venire lasciata per decenni prima nei depositi della Scala e poi in un magazzino a Mezzago).

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Un evento ambizioso e irripetibile. La nuova versione è stata più scarna nell'allestimento, con quelle strutture in metallo che attraversavano la chiesa, divisa in due dalla parete su cui è posto l'altare: è impossibile vedere contemporaneamente tutti gli strumentisti dell'orchestra, disposti lungo diversi livelli nelle due navate. Chi ascolta è travolto, rapito dalle oltre quattro ore di durata del Prometeo, portato a esplorare i suoni che si approssimano al silenzio.

Oggi e ieri

Paradossalmente, un allestimento che sarebbe piaciuto a Nono, preoccupato alla prima esecuzione che ci fosse troppo da vedere, in quella sua opera pensata per rinunciare a qualsiasi rappresentazione o supporto testuale e visivo. Una ricerca del suono più puro e libero, messaggio di libertà da tramandare a chi scopre le sue opere. Naturale sviluppo di un modo di concepire la musica come strumento di emancipazione e di conoscenza, in cui la sperimentazione più radicale si accompagna a messaggi politici anche molto espliciti.

Del resto, per il compositore veneziano iscritto al Pci, che cercava di convincere gli amici artisti in visita a frequentare le riunioni di partito nella sezione dietro casa, «anche il musicista deve scegliere e prendere posizione. È il musicista che parla, ma il musicista impegnato nella società».

Una delle prime volte che interagisce con la futura moglie Nuria Schoenberg, figlia del compositore austriaco, che ha vissuto a lungo negli Stati Uniti, le chiede degli scioperi degli operai della Ford a Detroit, di cui aveva letto sul quotidiano l'Unità.

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Nuria Schoenberg Nono, insieme alle figlie Silvia e Serena Nono, è da trent'anni la custode della Fondazione Nono, sull'isola della Giudecca di fronte alla casa natale del compositore dall'altro lato del canale, sulle Zattere, dov'è possibile consultare lo sterminato archivio di lettere, spartiti, nastri, vinili, foto, manifesti, appunti. I suoi ricordi personali di due tra le più importanti personalità musicali del Novecento, insieme alle testimonianze di molti dei collaboratori di Nono, compaiono nel documentario Infiniti possibili della regista Manuela Pellarin, presentato a Isola Edipo durante la Mostra del cinema di Venezia, a settembre. Il film racconta le diverse tappe del percorso del compositore, che non rinuncia mai all'impegno e che ritorna sempre, anche nelle scelte musicali, all'ambiente con cui ha il rapporto più intimo, ai suoni di Venezia. Come riflette Cacciari nel documentario, Luigi Nono «è politico perché il suo linguaggio musicale è rivoluzionario».

Il riallestimento del Prometeo e la presentazione del documentario sono stato tra gli eventi principali delle celebrazioni per il centenario del compositore, con incontri critici, riproposizione di opere, e un festival, Risonanze erranti, in diverse sedi veneziane per tutto questo mese di novembre (venerdì 29 il recital di Jan Michiels presso il Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia alle ore 16.30).

Una degli appuntamenti più interessanti del centenario è stata l'esecuzione de La fabbrica illuminata, uno degli esempi della sua produzione più esplicitamente politica, creata in collaborazione con il poeta padovano (allora 26enne) Giuliano Scabia. L'idea è quella di mettere in musica la cronaca di quel che accade nel paese. Ci provano prima con Diario italiano, concepito a pochi mesi dal disastro del Vajont, poi rifiutato dal Teatro La Scala che lo aveva proposto.

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Il suono dei laminatoi

Da quei tentativi nasce un'opera autonoma, una composizione per voce e nastro magnetico, realizzata dopo tre giorni trascorsi a registrare i suoni degli altiforni e dei laminatoi degli impianti Italsider di Genova, parlando con gli operai (cui l'opera è dedicata) della loro vita e del loro lavoro. «Si sa come è andata a finire: La fabbrica illuminata, invitata al premio Italia», organizzato dalla Rai che aveva inizialmente commissionato l'opera, «è stata rifiutata. La prima, fissata all'Italsider di Genova, cancellata», così riassume la vicenda il giovane poeta (in un testo recentemente pubblicato dalla Fondazione Scabia). La Biennale Musica accetta di presentare l'opera nel 1964 alla Fenice: alla partecipatissima prima assistono Italo Calvino, Sartre e Simone de Beauvoir, Rossana Rossanda, Dino Buzzati, una delegazione di operai dell'Italsider.

La fabbrica illuminata è da poco tornata alla Fenice ma soprattutto, lo scorso maggio, è stata eseguita a Porto Marghera, la città-fabbrica, cuore delle lotte operaie del secolo scorso, all'interno del capannone in cui si riunivano in assemblea i sindacati (da poco acquistato dal comune di Venezia, non senza polemiche). Stimolante il contrasto tra gli orchestrali della Fenice, elegantissimi, e gli striscioni che richiamano la vecchia vita del petrolchimico, «Contro la ristrutturazione padronale», «No alla nocività sul lavoro», «Via il governo Andreotti».

La composizione è cruda e diretta, dai suoni dissonanti e dirompenti, con quell'incipit durissimo: «Fabbrica dei morti la chiamavano». Ad assistervi (un evento gratuito, comunicato con preavviso inesistente), poche decine di persone, autorità impettite pronte a farsi fotografare, la famiglia Nono, qualche appassionato di musica. Gli operai, semplicemente, qui non ci sono: in gran parte stranieri, non tutelati, schiavi del capolarato, sono diventati invisibili e irraggiungibili. È come se la forza sconvolgente di un'opera così radicale sia stata totalmente disinnescata, resa inoffensiva. Ed è un segno, questo, di una incomunicabilità profonda, di come musica come questa fatichi oggi a raggiungere il pubblico cui vorrebbe rivolgersi. Ed è forse proprio per questo che ci serve oggi tornare a Luigi Nono, per riscoprire il suo messaggio di libertà, di emancipazione, grazie alla musica.

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