- Non metto nell’acconciatura di mia figlia lo stesso impegno che metto nello scegliere le sue letture.
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Non passa anche da qui la parità, ovvero dal fregarsene di certe convenzioni, rivendicando il diritto di fare le cose quotidiane in maniera approssimativa?
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Venticinque minuti al giorno per curare il proprio aspetto, per oltre un decennio, fanno un totale di centomila minuti persi. A meno che la loro funzione non sia un’altra.
Dalla località di mare dove passo dieci giorni di vacanza solo con mia figlia, spedisco a mia moglie fotografie moderatamente rassicuranti.
Come in Blow Up di Michelangelo Antonioni, solo a uno sguardo attento le immagini rivelano le prove di una serie di crimini: il costumino è messo al contrario e l’abito al rovescio, la crema solare è spalmata grossolanamente a manate, i capelli non sono pettinati, quello che a prima vista potrebbe sembrare un pantaloncino a un esame più attento risulta essere un pigiama. Sfortunatamente, l’occhio attento è quello di mia moglie.
Rassicuro il lettore, oltre che la madre: la sicurezza della bambina è scrupolosamente rispettata. Innanzitutto la crema viene applicata dopo ogni bagno, in memoria delle ustioni di secondo grado che mi sono procurato all’adolescenza (bolle grosse come albicocche, ospedale, cortisone, garza).
Inoltre l’alimentazione è sana e varia, ogni pasto cucinato con prodotti freschi per mia cura. I vestiti lavati. Più frutta che gelati. Il ciclo del sonno rigorosamente rispettato. La strada si attraversa tenendo la manina. Niente televisione, e almeno un’ora quotidiana di lettura.
Funzione e ornamento
Per tutto il resto mi capita di essere un pochino più approssimativo. Effettivamente non metto nell’acconciatura di mia figlia – che tende spontaneamente al dreadlock – lo stesso impegno che metto nello scegliere le sue letture.
Bisogna tuttavia riconoscere che dopo le prime rimostranze materne ho fatto molti progressi e acquisito abitudini come quella di spazzolare i capelli dopo ogni bagno in mare. Utilissima a tal fine è una piccola spazzola districante di facile impugnatura che tutti sicuramente conoscete, divenuta in pochi anni la spazzola più venduta al mondo, chiamata tangle teezer.
«Ma i maschi non hanno bisogno di pettinarsi?» mi chiede giustappunto la bambina, sollevando per me l’annosa questione del genere. Non posso fare a meno di chiedermi perché certe considerazioni estetiche, secondarie per me, siano invece tanto importanti per mia moglie. Sembra di rifare in famiglia i dibattiti estetici di un secolo fa sulla funzione e l’ornamento: il polo maschile rivolto alla brutale ragione economica – l’imperativo principale resta quello di sopravvivere – mentre quello femminile difende le ragioni della bellezza, dedicandosi al lavoro di cura.
La domanda sorge spontanea: c’è davvero bisogno di tutta questa cura? Mettendo pure tra parentesi il tempo che risparmio io – mi serve a scrivere articoli come questo, e quindi a finanziare le nostre vacanze – penso anche al tempo che risparmierebbe mia figlia, in tutta una vita, se non si preoccupasse di avere i capelli in ordine o di essersi tolta il pigiama.
Insomma se, alla faccia della cura, accettasse di esprimere la sua femminilità attraverso questo look – tuta e dread – da cantanti nu metal degli anni Novanta. Che non a caso cantavano: «I tried so hard and got so far, but in the end it doesn’t even matter». Non passa anche da qui la parità, ovvero dal fregarsene di certe convenzioni, rivendicando il diritto di fare le cose quotidiane in maniera approssimativa?
Tempo guadagnato
Forse sì. E d’altra parte bisogna fare i conti con il mondo così com’è, fatto di aspettative divergenti che la società rivolge alle persone in funzione del loro genere. La riproduzione delle forme sociali risponde a bisogni sociali.
Insomma sono ben grato che mia moglie mi mandi dei promemoria su quello che devo fare per evitare che mia figlia venga considerata come un’orfanella londinese al servizio della banda di borseggiatori del vecchio Fagin. Inoltre non non sono assolutamente sicuro che giunta alla maggiore età la piccola ingrata sarebbe effettivamente pronta a ringraziarmi per quei venticinque minuti al giorno che le ho fatto risparmiare, se il prezzo da pagare sarà stato di apparire orrenda in ogni sua singola foto.
Venticinque minuti al giorno non sono pochi. Sui dodici anni che la separano dai diciotto, fanno un totale di centomila minuti, ovvero settanta giorni. Quei settanta giorni – stimati approssimativamente – sono il tempo perso per non sfigurare sulle foto. Tempo che avrebbe potuto impiegare per sviluppare qualche altro suo talento.
Tempo perso? Non ne sono più tanto sicuro. Forse quei minuti persi a pettinarsi – a fare le cose con cura – costituiscono un tempo di socializzazione più importante di tanti altri, che sfugge soltanto a me, e che contribuisce a renderla quella che è. Nel dubbio, cerco di migliorare anch’io.
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