Il 7 ottobre 2010 mi trovavo davanti alla televisione, più nello specifico davanti a una puntata di Chi l’ha visto?, erano i giorni della ricerca della quindicenne avetranese Sarah Scazzi. Concetta Serrano, madre di Sarah, quella sera era in collegamento con la trasmissione, ignara di star per ricevere in diretta la notizia della prima confessione di Michele Misseri. Lanci di agenzia letti sul momento parlavano della ricerca del corpo della ragazza, ritrovato poi in fondo a un pozzo di raccolta delle acque.
«Concetta, vuole che terminiamo il programma? Perché se lei me lo dice io interrompo immediatamente la programmazione. Decida lei ovviamente», diceva la conduttrice Federica Sciarelli. Ma Serrano è rimasta pietrificata e incapace di rispondere, fino a che l’avvocato non l’ha accompagnata lontana dalle telecamere.
Pur comprendendo la natura del programma e la difficoltà di gestire un aggiornamento di tale portata durante una diretta, in quell’occasione non ho potuto fare a meno di chiedermi: qual è il limite? E come è possibile - se è possibile - stabilirlo? Come è noto, il 23 maggio 2021 una cabina in transito sulla funivia Stresa-Alpino-Mottarone si è sganciata dall’impianto ed è precipitata per venti metri in un incidente che ha causato quattordici morti e un solo sopravvissuto. L’età delle vittime va dai due agli ottantuno anni, il dramma ha riverberato per tutto il paese assieme alle domande sul perché e come sia potuto accadere.
Nel tempo intercorso sono state avviate le indagini e le eventuali responsabilità saranno verificate in sede di tribunale. Questo poteva essere l’epilogo della vicenda nella sua veste pubblica e mediatica, ma non è andata così. Come spesso accade con i casi di cronaca più traumatici, sin da subito si è attivata la rincorsa al particolare, culminata con il 16 maggio, quando il Tg3 manda in onda in esclusiva il video della cabina che precipita. Nel giro di niente questo finisce con l’essere rilanciato online da numerosissime testate più o meno note, più o meno blasonate. Il video partito dalla televisione pubblica è debitamente censurato onde non mostrare i volti delle vittime, ma come prevedibile iniziano a girarne anche versioni integrali. Ogni redazione si giustifica come meglio crede, si va da “mostriamo il video perché processualmente rilevante” a “il video aggiunge elementi alla comprensione di ciò che è successo”. In tutto questo, l’unico dato che sembra essere rilevante è la consapevolezza che ci sia la necessità di giustificarsi per qualcosa che si è fatto.
Una inaccettabile anomalia
Viene da pensare a quando tra il 10 e il 13 giugno 1981 un bambino cade in un pozzo artesiano a Vermicino e lì, dopo sessanta ore di vani tentativi di salvataggio, finisce col morire. A riprendere la vicenda sono sempre le telecamere della Rai. La morte di Alfredo Rampi entra così nella memoria e nel trauma collettivo, con una diretta televisiva non stop e a reti unificate che verrà considerata la prima del suo genere, progenitrice involontaria della tv del dolore in un contesto in cui la convinzione era quella di andare a riprendere le scene di un’eroica restituzione alla vita. Quarant’anni dopo non abbiamo dalla nostra neanche questa giustificazione, non stiamo maneggiando uno strumento che conosciamo poco, e non eravamo di fronte a un finale aperto. In un paese che non ha alcuna voglia di parlare di morte, colpisce sempre come la cronaca più tragica venga ricercata in maniera quasi ossessiva. A febbraio ne avevamo parlato su queste pagine insieme al tanatologo Davide Sisto, in relazione a eventi che in quei giorni avevano purtroppo coinvolto bambini e minorenni, social network e media “tradizionali”. Potremmo liquidarla come morbosità del pubblico a cui si risponde con un’offerta adeguata, ma ci sono troppe variabili per trincerarsi dietro i “signora mia” e gridare all’umanità guasta. La morte viene percepita come un cortocircuito che si verifica nella terra dei vivi, una inaccettabile anomalia. Non dovrebbe stupire il desiderio insopprimibile di chi vuole saperne di più (forse per convincersi che può accadere solo “agli altri”), di chi piange tutte le sue lacrime per persone lontane e sconosciute (forse per mitigare il senso di colpa di chi è rimasto), di chi prende la via del cinismo o non vuole proprio saperne niente (forse perché è più facile non pensarci). Stupisce la completa assenza di un ragionamento ampio da parte di chi le notizie le fa uscire e le può filtrare. In mancanza di un vero dibattito pubblico sulla finitezza e la sua rappresentazione ne farei dunque più una questione di consenso. Quello del telespettatore a decidere se essere esposto o meno a determinati contenuti (possibilmente senza essere preso alla sprovvista all’ora di cena), ma anche e soprattutto quello delle vittime. Il consenso non è infatti cosa che riguarda solo la prossemica dei nostri corpi vivi e attivi nella società. Riguarda anche i nostri corpi feriti, rotti, ammalati, e perfino i nostri corpi quando non sono niente più che corpi.
I compagni di Eriksen
In modo del tutto istintivo ce ne hanno dato una dimostrazione i giocatori della nazionale danese, proteggendo il compagno Christian Eriksen mentre il personale sanitario cercava di rianimarlo. Di fatto hanno messo a servizio i propri corpi attivi per riparare un corpo che in quel momento non era in grado di difendersi da solo. Quei giocatori non ci hanno dato tanto la dimostrazione di cosa significhi avere un altissimo senso etico (idea scivolosa, perché subito ci trascina nel meccanismo della ricerca dell’assolutamente buono e della lacrima spettacolarizzata) quanto che cosa significhi occuparsi di mettere una barriera fisica tra chi il consenso non lo può fornire e chi è pronto ad andare a prenderselo con la forza.
Quello che sembriamo destinati a non capire mai è che il flusso di notizie impone movimento, mentre il trauma e il lutto impongono di fermarsi. Forse questo ci dice che, se è vero che la cronaca ha il bisogno fisiologico di andare avanti, è vero anche che prima di restituire una storia abbiamo bisogno di tempo. Tanto più tempo quanto più questa è difficile da accettare.
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