Il rapporto Draghi (393 pagine) è stato molto commentato non appena uscito, da tanti che difficilmente avevano avuto il tempo di leggerlo. Merita invece una vera lettura.

Segue di pochi mesi il lavoro di un altro ex premier, Enrico Letta, pubblicato anche in italiano (Molto più di un mercato, Il Mulino). Sia Draghi sia Letta chiedono un salto di qualità nell’integrazione europea che, ragionevolmente, dovrebbe favorire la crescita economica.

Vi è innanzitutto il completamento del mercato unico, su cui si concentra Letta: nelle telecomunicazioni, nell’energia, nelle infrastrutture di trasporto, nella finanza. A più di trent’anni da Maastricht, questo è davvero il minimo, senza il quale l’Unione resta incapace di sviluppare il suo potenziale ed è destinata a ristagnare nell’inefficienza, a scivolare nell’irrilevanza.

Come già sta avvenendo. Draghi aggiunge, soprattutto, un piano di investimenti di proporzioni mai viste (750-800 miliardi l’anno: più del doppio del piano Marshall, in rapporto al Pil), in tutti quei beni pubblici che ormai non conviene più produrre a livello nazionale, per tenere il passo con gli Usa e la Cina.

Misure irrealizzabili

Purtroppo anche solo le misure proposte da Letta, e ancor più quelle di Draghi, appaiono oggi irrealizzabili. E il principale ostacolo sulla loro strada è proprio il governo italiano, guidato da Giorgia Meloni.

È illusorio infatti sperare di riuscire a fare tutto questo, e farlo bene, senza modificare i trattati (come auspica il rapporto Draghi ad esempio con le cooperazioni rafforzate). È necessaria un’Europa federale, quale soggetto politico attuatore, pienamente sovrana e democratica. E per arrivarci occorre superare innanzitutto il diritto di veto dei singoli stati: tutti i governi se lo tengono stretto, per la verità, ma fra quelli di peso il più irremovibile è proprio il nostro, perché guidato da una destra nazionalista che ne fa, anzi, la sua ragion d’essere in Europa.

Ora, Draghi è stato il presidente del Consiglio prima di Meloni. Letta avrebbe potuto essere il presidente del Consiglio al posto di Meloni, se solo fosse riuscito a costruire una coalizione vincente (e le responsabilità non sono solo sue, ma anche di un mondo centrista che si entusiasmava proprio per Draghi, oltre che dei Cinque stelle).

Italia fanalino di coda

È un’amara ironia della storia che questi utili contributi al cambiamento dell’Europa provengano dai due italiani, Letta e Draghi, che non sono riusciti a realizzare, quando ne avevano gli strumenti, innanzitutto nel loro paese, le condizioni politiche minime affinché il cambiamento potesse realizzarsi.

L’Italia poteva porsi alla testa del processo da loro auspicato; invece è il fanalino di coda e anzi, peggio, con Meloni ne rappresenta l’impedimento per eccellenza (non l’unico). O in altre parole: Meloni ha potuto vincere anche perché ha goduto di enormi e ingiustificate aperture di credito da parte di classi dirigenti che avevano Draghi come punto di riferimento; un errore di valutazione madornale, e drammatico, di portata storica, con cui ora tutti, e Draghi per primo, dobbiamo fare i conti.

Anche perché, come accennato, le proposte di Draghi hanno un’ambizione in più. Tale da poter segnare, per l’Europa, un cambio di paradigma: la fine dell’austerità. Di più, la fine dell’illusione neo-liberale secondo cui tutto quel che la politica deve fare è lasciar funzionare al meglio i mercati.

Qui ci vuole l’intervento pubblico, e in dosi massicce, come dopo la Seconda guerra mondiale, nell’età dell’oro del capitalismo occidentale, se non di più. Questo è quello che noi economisti keynesiani chiedevamo da anni, (quasi) inascoltati: Draghi riconosce che avevamo ragione.

“Agenda Draghi”

Questa svolta è stata ben colta dal più importante economista della sinistra europea, Thomas Piketty. Si può dissentire sui singoli punti dell’“agenda Draghi” (ora c’è per davvero), che è molto ampia. Ad esempio, sull’idea di fare debito per potenziare l’industria della difesa (non basterebbe, intanto, mettere in comune le diverse difese nazionali, creando già così enormi economie di scala?) o più in generale sull’idea di finanziare con questo debito comune, cioè con i soldi di tutti i cittadini, le imprese private: per coerenza, e tantopiù se forniscono servizi di pubblica utilità legati a diritti fondamentali, con i soldi pubblici andrebbero create delle imprese pubbliche, europee; che ambiscano a diventare campioni globali nella salute, nella transizione energetica, nelle tecnologie digitali, come proposto fra gli altri da Fabrizio Barca.

Eppure per molti versi la direzione è condivisibile: più Europa e un’Europa diversa, che rompa con l’austerità per investire nell’ambiente, nell’innovazione, nella difesa (!), per salvare (e magari migliorare?) il nostro modello sociale.

In un editoriale pubblicato sul Financial Times il 25 marzo 2020, nel pieno della pandemia, Draghi si era già orientato in questa direzione, distinguendo fra «debito buono» e «debito cattivo». Quell’intervento contribuì, assieme alla determinazione dell’allora governo giallo-rosso, così come dei governi spagnolo e francese, a ottenere, dopo mesi di estenuanti trattative, il Pnrr: convincendo i paesi frugali a fare debito comune per contrastare le disuguaglianze, per investire nell’ambiente e nel digitale.

Se oggi tanti concordano sul fatto che questa politica espansiva vada non solo mantenuta, ma di molto ampliata (sulla stessa linea si muovono, ad esempio, gli editoriali di Francesco Giavazzi sul Corriere delle sera), questo avviene certo anche perché nel frattempo si è molto inasprita la competizione geopolitica, che può degenerare in una guerra mondiale; non a caso l’industria militare è così centrale nel rapporto Draghi. Ma è un fatto che qui siamo, almeno sul piano teorico, a una svolta d’epoca.

Tassare le ricchezze

Tuttavia, anche solo in termini generali e sorvolando su singoli punti, la visione proposta da Draghi ha dei limiti: proprio sul piano della fattibilità economica, che si intrecciano con quelli politici.

La quantità di nuovo debito europeo è talmente ampia che il solo risparmio interno non basta. Occorrerà far comprare i titoli alla Bce, creando così inflazione (una via che i tedeschi in primis respingono); oppure farli comprare agli investitori di tutto il mondo, cosa che si può fare solo aumentando i tassi (e questo avrebbe conseguenze negative per i paesi che hanno già un alto debito nazionale, Italia su tutti: gli interessi che dobbiamo pagare aumenterebbero ancora di più).

C’è un modo per evitare una simile impasse? Certo. Ed è tassare di più le grandi ricchezze e i grandi profitti, su scala europea: e utilizzare queste risorse per l’ambiente, il sociale, l’innovazione. Riducendo quindi il nuovo debito da collocare sui mercati. E riducendo le disuguaglianze, così da rafforzare anche la legittimità democratica della nuova Europa.

Questa è l’“agenda” – una combinazione di equità fiscale e debito comune – che dovrebbe essere fatta propria dai partiti progressisti, per riformare l’Unione europea: va oltre le proposte di Draghi, ma è forse più coerente e anche più realizzabile.

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