- Il Pci era un partito in grado di governare benissimo molte zone del paese e di esprimere un personale politico di altissimo livello nelle assemblee parlamentari, disponendo di una classe dirigente di prim’ordine.
- Ma il Pci era anche un partito condannato alla perenne opposizione, all’esclusione da ogni responsabilità governativa.
- Questa condizione ha fatto sì che esso mantenesse elevata per tutta la durata della sua storia un’elevata tensione demagogica.
Una delle litanie nel dibattito intorno alla crisi del Partito democratico sottolinea la distanza tra la linea del partito e le “periferie”, ovvero quei ceti popolari che un tempo votavano a sinistra e ora non lo fanno più.
Si ripete che il Pd ha perso la sua identità di classe, che è affievolito sino quasi all’evaporazione il suo legame con i più deboli.
Nessuno però dei sostenitori di questa tesi dice dovrebbe fare il Pd per rimediare alla frattura con i ceti che costituirono per lungo tempo la sua base elettorale.
Gli errori del passato recente
Certo sarebbe stato meglio, per il Pd, non introdurre il Jobs Act o non contrastare a suo tempo l’introduzione del reddito di cittadinanza.
E sarebbe preferibile aver insistito nella recente campagna elettorale, più di quanto sia stato fatto, sul tema del lavoro, della sua creazione e della sua tutela.
Ma non sarebbe bastato. Molta parte dei ceti popolari è ormai inavvicinabile per un partito come il Pd.
Penso a quella ampia componente di abitanti delle periferie che detesta gli immigrati, che li vorrebbe tutti fuori dalle scatole e che ha gioito all’approvazione dei decreti sicurezza di Salvini.
O che sogna la “mano dura” nella repressione del crimine, che vuole leggi più severe e detenzioni più feroci.
Probabilmente la stessa fetta di popolazione che odia l’Europa, che non può permettersi di mandare i figli in Erasmus e che vede l’Unione come una iattura grazie alla quale tedeschi e francesi vengono a comandare in casa nostra.
E’ vero che una buona fetta di costoro, o dei loro familiari più anziani, votava a sinistra. Ma per quale sinistra? In Italia costoro, o i loro genitori, votavano soprattutto per il Pci.
Quest’ultimo era un partito in grado di governare benissimo molte zone del paese e di esprimere un personale politico di altissimo livello nelle assemblee parlamentari, disponendo di una classe dirigente di prim’ordine.
Ma il Pci era anche, e lo è stato sino all’ultimo, un partito condannato alla perenne opposizione, all’esclusione da ogni responsabilità governativa, da ogni incarico ministeriale.
Questa condizione ha fatto sì che esso mantenesse elevata per tutta la durata della sua storia un’elevata tensione demagogica, facendo mostra di una spiccata attitudine a promettere ciò che non avrebbe mai potuto garantire, a presentare programmi irrealizzabili.
In questo modo il Pci capitalizzava la sua esclusione dal governo e raccoglieva il consenso di molti delusi, di una buona parte degli sconfitti, dei marginali, degli ultimi.
Quella cultura politica oggi non è rivitalizzabile, sia perché il Pd è diventato un partito di governo che ha a lungo guidato i destini del paese, sia perché tutto l’armamentario ideologico comunista di quegli anni è diventato inservibile e anacronistico.
Le formazioni politiche che in qualche modo vi si rifanno, i vari partitelli comunisti, accumulano a mala pena qualche migliaio di voti.
Il linguaggio della lotta di classe non incanta più i ceti popolari. La demagogia è oggi monopolio di Lega e Fratelli d’Italia e questo è conseguenza di un cambiamento culturale profondo e duraturo.
I motivi demagogici scampati all’egemonia delle destre, sono divenuti appannaggio del Movimento Cinque stelle, i cui vertici rifiutano peraltro ogni parentela con la sinistra e la sua storia, preferendo definirsi genericamente “progressisti”.
Le opzioni
Alla sinistra rimangono, per rimediare a questa situazione, due vie che tra loro non si escludono: la prima quella di governarle bene queste periferie.
Il Pd governa tanti importanti centri del nostro paese, dove vivono masse consistenti di ceti popolari.
Vanno amministrati bene, ponendo grande attenzione ai bisogni e alle istanze (non simboliche, ma concrete) che da questi gruppi sociali provengono.
La seconda via è l’alleanza, davvero difficile a farsi, con i populisti di sinistra, con quei Cinque stelle che ai ceti popolari, soprattutto del Sud, riescono a parlare adoperando un linguaggio efficace sul piano elettorale.
I cento convegni sui disastri del neoliberismo e la crescita delle diseguaglianze confermeranno le opinioni diffuse nei “ceti medi riflessivi” che della sinistra ormai costituiscono l’armatura sociale ma non porteranno un solo voto in più. C’è da scommetterci.
© Riproduzione riservata