Per tre decenni, ormai, dopo il crollo del muro di Berlino e poi dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, le sinistre dei Paesi occidentali – in Italia, in Europa e oltre oceano – hanno sostenuto che il mondo sarebbe stato ben garantito dal connubio tra democrazia, capitalismo e sviluppo tecnologico, arricchendo la prima sul piano «sociale», temperando il secondo con la «mano visibile» delle regole e facilitando il terzo perché si diffondesse facendone uno strumento di miglioramento delle condizioni di vita per i più.

Insomma, crollata l’illusione «socialista» le sinistre sono tornate all’ovile della cultura liberale, dalle quali erano nate, contrapponendo al liberismo deregolato una sua versione più equa, imperniata sul rispetto dei «diritti».

Dopodiché pure le classi sono andate dissolvendosi in quella società che, si è detto, era divenuta «liquida», vanificando così anche la lotta tra di esse, ed è quindi scomparsa dall’orizzonte anche l’idea marxista che il conflitto sociale andasse risolto con il predominio di una, quella dei subordinati, sulle altre, quelle dominanti.

Globali e liberali

Poi, è arrivata la globalizzazione e il capitalismo ha ben colto l’occasione per farsi «globale», assicurandosi che consone politiche liberiste non ne frenassero l’espansione. E il conflitto non è sparito né si è assistito alla fine del predominio, sancito non dalla competizione tra uguali, non dal «talento» o dal «merito», ma ancora e sempre dalle origini e dal censo, acquisito grazie a lignaggio e al «mercato», non importa come, non dalle opportunità mai davvero uguali per tutti.

Non solo, ma le sinistre hanno fatto proprio lo schema liberale, in fondo credendo all’idea che non vi sia alternativa al modello della democrazia capitalistica, appoggiando sempre nel mondo ogni critica e denuncia di chi a quel modello non voleva conformarsi.

Così, è accaduto che chi aveva militato in quelle sinistre che avevano a lungo professato di voler sconvolgere l’ordine liberale borghese – condividendo la condizione delle masse che per generazioni erano vissute nell’indigenza e nello sfruttamento –, passata l’onda e avendo (il sistema) garantito miglioramenti nelle condizioni di vita per larghe fasce delle classi popolari e medie, si è ritrovato a godere del benessere degli anni Settanta e Ottanta, per aderire infine all’idea che il welfare state aveva risolto molti dei problemi originari, accettando che il capitalismo «avesse vinto» grazie alla «spinta» democratica proveniente dal basso che aveva permesso il consolidamento del modello liberale.

La democrazia capitalistica aveva mostrato la sua superiorità storica e come tale andava difesa, puntellata nella sua attenzione alla distribuzione, e il conflitto di classe andava perciò superato, dato che il modello liberale si dimostrava «fondamentalmente egalitario».

Il migliore dei mondi possibili 

Con una buona dose di narcisismo e compiacenza, si è in fondo accettata l’idea che era questo il sistema che volevamo, non un altro, e che, se avevamo provato ad immaginarne altri, era stato solo un esercizio «utopistico».

Se oggi guardiamo a quale elaborazione le sinistre sono state capaci di produrre negli ultimi tre decenni, non troviamo nulla che non sia l’idea di «temperare» l’esistente, dando per scontato che questo nostro sistema, in fondo, è quanto di meglio il mondo è stato capace di offrire fino ad oggi. Il problema, più che politico, è culturale.

Non vi è mai stata una rielaborazione del colonialismo occidentale, ad esempio, e del razzismo che ha soggiaciuto alla sua realizzazione, di cui lo schiavismo è stato l’altro lato della medaglia.

Non è questa questione che riguarda solo gli imperi coloniali grandi e piccoli (come quello italiano), ma anche gli Stati Uniti, dove la questione razziale è rimasta cancrena aperta perché incistatasi sul retaggio schiavistico.

Poi, alla decolonizzazione è subentrato il neo-imperialismo del mercato (e la Cina oggi ci fa concorrenza), ma anche questo non è stato oggetto di critica. Quando i regimi comunisti avevano la meglio nelle loro guerre anti-imperialiste simpatizzavamo, ma già eravamo convinti di quanto il nostro «mondo libero» fosse meglio.

Potevamo forse difendere l’Unione Sovietica, potevamo non unirci alla denuncia dei gulag staliniani, della miseria di quei regimi senza libertà come il Vietnam, Cuba e la Cina (di Mao e dei suoi successori)?

Eppure, crimini indicibili sono stati prodotti da quel dominio: dall’annientamento delle popolazioni indigene agli stermini di massa, alla negazione di ogni libertà, fino alle più recenti «guerre umanitarie» e ai «cambiamenti di regime» imposti con le armi e l’intervento esterno.

LaPresse

Diritti per pochi e bianchi

Ci siamo sempre beati di discendere dall’illuminismo, dimenticando però che liberté, fraternité e egalité erano solo per i cittadini (possibilmente bianchi), non per i colonizzati. E, naturalmente, quando sarebbe venuto il turno di stare dalla parte degli oppressi in casa nostra abbiamo fatto tutti i distinguo possibili per fare sì che quella migratoria divenisse una questione di ordine pubblico, di difesa della «fortezza Europa», perché il benessere ha un prezzo e non possiamo «dare un posto a tavola a tutti».

Abbiamo sempre creduto, in fondo, che se in tanti vogliono venire a stare qui da noi è perché «da noi si sta meglio». Non piuttosto che l’ordine economico internazionale è così distorto che le disuguaglianze sono abissali e tali da spingere milioni di essere umani a tentare la sorte piuttosto che continuare a soffrire.

Ma poi è arrivato l’11 settembre e la «guerra al terrore», con il suo seguito di invasioni e abbattimenti di regimi «autocratici». È sopraggiunta l’ennesima «crisi» finanziaria, il cui prezzo è stato fatto pagare alle masse (che esistono ancora e non se la cavano tanto bene). L’immigrazione è continuata, e così la ghettizzazione, l’emarginazione, i tipici «problemi» delle economie «sviluppate».

Il «terrorismo» islamico ha fatto proseliti, ma solo perché è tutta gente che non ha saputo «integrarsi». E ovunque in Occidente ha preso piede, ancora una volta, la febbre populista, autoritaria e di destra, assenti le sinistre dall’orizzonte delle classi popolari.

Tutti devono imitarci

Le sinistre, se vogliamo, hanno una colpa in più, che non è tanto quella di aver gettato alle ortiche Marx, la rivoluzione proletaria e il superamento delle classi. Assumendo il paradigma liberale come proprio – non c’è intellettuale di sinistra oggi, che non sposi le tesi di John Rawls, con l’idea, in definitiva che è il nostro modello che andrebbe perseguito dal resto del mondo, non lasciare che altri paradigmi possano affermarsi – ha finito per isterilirsi, nel richiamo stantio delle interpretazioni «diverse» dei Gramsci, dei Benjamin e delle Arendt, senza essere più capace di proporre qualcosa di originale, finendo così intrappolata.

Questa riflessione sarebbe quanto mai opportuna oggi che ci troviamo di fronte ad una svolta «epocale».

La pandemia del secolo segnerà una svolta, se non altro per il fatto che eventi così vasti, drammatici e sconvolgenti si verificano poche volte nella storia. Il sistema ne uscirà sconquassato e il venirne fuori, tenendo conto dei cambiamenti climatici e delle scelte che anche questi comporteranno, richiederà una prospettiva e una «visione» nuova del mondo.

Le sinistre arrivano a questo appuntamento sguarnite, con la cassetta degli attrezzi ormai in disuso, non più avvezze a prefigurare mondi diversi. Ma mai come in questo momento sarebbe necessario, se esse non vorranno sparire.

Il che, in fondo, non sarebbe una novità: il progresso, nella storia, non va sempre avanti e la decadenza della «civiltà occidentale» non sarebbe il primo esempio che nulla è dato, che le conquiste fatte possono essere dilapidate e che si può sempre ricominciare da capo.

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