- L’inflazione americana di maggio, all’8,6 per cento, è stata superiore alle attese, in crescita rispetto ad aprile, e tornata ai livelli del 1981.
- Se la Fed vuole essere credibile nel raggiungere il suo obiettivo di un’inflazione media del 2 per cento, dovrà aumentare i tassi molto più rapidamente, e portarli fino a un livello sensibilmente più alto di quanto ci si attendeva solo qualche settimana fa.
- Sulla strada della lotta all’inflazione la Bce non ha soltanto il rischio della “frammentazione” del mercato dei titoli di stato ma anche quello della debolezza dell’euro.
Tutta l’attenzione si è concentrata sulla riunione della Banca centrale europea ce che, giovedì scorso, ha dato il via all’aumento dei tassi nell’Eurozona; ma è il dato di venerdì scorso sull’inflazione negli Stati Uniti, e la riunione della Federal Reserve di domani, che potrebbe avere ripercussioni anche più rilevanti.
L’inflazione americana di maggio, all’8,6 per cento, è stata superiore alle attese, in crescita rispetto ad aprile, e tornata ai livelli del 1981.
In parte l’accelerazione dei prezzi è dovuta agli aumenti del costo dell’energia e dei prodotti agricoli; ma anche al netto di queste due componenti, l’inflazione cosiddetta “core” è la più alta degli ultimi trent’anni, a prescindere da come la si misuri.
Se la Fed vuole essere credibile nel raggiungere il suo obiettivo di un’inflazione media del 2 per cento, dovrà aumentare i tassi molto più rapidamente, e portarli fino a un livello sensibilmente più alto di quanto ci si attendeva solo qualche settimana fa.
Così il mercato sconta che il tasso di riferimento della banca centrale (Fed Funds) salirà dallo 0,83 per cento attuale al 3,4 di fine anno, per poi toccare un massimo del 4 per cento a maggio 2023.
Un aumento di ben 300 punti concentrato in 10 mesi; se poi domani la Fed decidesse per incrementare di 75 punti del suo tasso di riferimento, l’aumento avverrebbe in tempi anche più ristretti.
La dinamica dei tassi americani nei prossimi mesi porrà la Banca del Giappone e la Bce di fronte a scelte difficili.
Il Giappone mantiene una politica espansiva che pone un tetto al rendimento sui titoli di stato: con la conseguenza però di indebolire lo yen che in un anno ha perso il 22 per cento rispetto al dollaro, creando tensioni con la Cina e gli altri paesi asiatici che vedono la loro divisa apprezzarsi rispetto alla concorrenza giapponesi.
Se la Banca del Giappone mantenesse la politica attuale il rischio è che la debolezza dello yen inneschi una catena di svalutazioni in Asia, fughe di capitali e insolvenze sul tanto debito di quei paesi denominato in dollari: in altre parole una riedizione della crisi asiatica del 1998, che ebbe gravi ripercussioni sul resto del mondo.
La Bce si trova in un dilemma analogo: l’euro in un anno si è deprezzato del 16 per cento, e un forte ampliamento della forbice dei tassi con i quelli americani nei prossimi mesi indebolirebbe ulteriormente la moneta unica, esacerbando l’inflazione nell’eurozona in quanto prevalentemente importata.
Nè la debolezza dell’euro potrebbe rilanciare le esportazioni perché l’effetto congiunto di crisi energetica in Europa, politica zero Covid in Cina e il rialzo dei tassi negli Usa produrrà una contrazione della domanda globale.
Sulla strada della lotta all’inflazione, dunque, la Bce non ha soltanto il rischio della “frammentazione” del mercato dei titoli di stato ma anche quello della debolezza dell’euro.
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