Quando Sergio Mattarella ha incaricato Mario Draghi di formare un governo, ha innescato un processo di evoluzione del sistema dei partiti i cui frutti si iniziano a vedere con queste elezioni amministrative. I primi risultati sono quelli più funzionali al progetto di Mattarella e Draghi, cioè ancorare il paese a valori europei e garantire capacità amministrativa nell’uscita dalla pandemia che prevede la gestione dei fondi europei del Pnrr.

Draghi ha di che essere soddisfatto. Il progetto sovranista di Matteo Salvini si è definitivamente dissolto: il leader della Lega non è riuscito a costruire un centrodestra a sua immagine, le tensioni all’interno di una coalizione che in teoria guidava hanno prodotto candidati deboli (Bernardo a Milano, Michetti a Roma, Maresca a Napoli). Fratelli d’Italia non sembra al momento in grado di intercettare i delusi dal salvinismo: a Milano, il centrodestra nel suo insieme ha preso quasi dieci punti in meno che alle europee del 2019.

L’uscita di Salvini è ormai inevitabile, anche se non sarà immediata. Giorgia Meloni però non sembra pronta o capace di prenderne il posto. Ad approfittare di questo stallo a destra possono essere candidati centristi: con caratteristiche diverse Beppe Sala a Milano, l’unico che ha provato a cavalcare la nuova sensibilità ambientalista, o Carlo Calenda a Roma, sconfitto ma con un risultato che lo proietta come protagonista di quello spazio (piccolo o grande che sia) finora presidiato da un Matteo Renzi mai così impalpabile. Tutte buone notizie per Draghi e Mattarella.

Il sostegno ai partiti di destra sarà forse maggioritario nel paese, ma nelle grandi città la combinazione Pd-Cinque stelle resiste.  A Bologna, Napoli, Torino e Roma il Partito democratico ha dimostrato di esistere ancora e di saper dominare. E lo ha fatto proprio rifiutando tutte le innovazioni degli ultimi anni, in un superamento definitivo della “rottamazione” renziana: ha inglobato le dissidenze di sinistra nelle liste, ha candidato personalità di esperienza e ha fatto campagne elettorali antiche, con minimi appelli alle tematiche cavalcate dal segretario Enrico Letta (i temi identitari sul fronte dei diritti).

Il Pd, insomma, ha vinto e può vincere ai ballottaggi in quanto partito dell’amministrazione responsabile, caratteristica rappresenta ormai l’unica vera identità di un gruppo dirigente che ha abbandonato da tempo ogni tentativo di elaborazione culturale e strategica per concentrarsi sull’esecuzione.  

A questo Pd i Cinque stelle sono utili, ma forse non indispensabili (vedremo al ballottaggio per Roma), cosa che rasserena tutti sul lato democratico, perché è più facile stare in un’alleanza da leader, e pure sul fronte pentastellato dove molti non hanno gradito l’imposizione di Giuseppe Conte. Ora è chiaro che l’ex presidente del Consiglio non sarà mai il candidato premier della coalizione ma solo l’amministratore del declino del Movimento.

Queste elezioni innescheranno scosse telluriche all’interno dei partiti, ma sono scosse di assestamento verso una nuova stabilità.

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