- Con il 55,69 per cento l’astensionismo passa al primo turno. Una maggioranza schiacciante con cui non si fa nulla. Il non-voto non si traduce in posti, ma è un esercizio di libertà.
- L’astensione è individuale come il voto: è come se un’unica idea fosse circolata tra milioni di cittadini che non comunicavano tra loro e li abbia fatti agire di concerto.
- Se si vuol fare un esame delle ragioni della disaffezione al voto si deve volgere lo sguardo prima di tutto a coloro che sono i professionisti della politica: dalla formazione dell’opinione, alla discussione informale pubblica, alle campagne elettorali.
Con il 55,69 per cento l’astensionismo passa al primo turno. Il fatto è che non esprime alcun sindaco. Una maggioranza schiacciante con cui non si fa nulla. Il non-voto non si traduce in posti, ma è un esercizio di libertà.
Il suo opposto dovrebbe essere il “dovere civico” (così lo definisce la Costituzione) di andare a votare; ma oggi questa sembra solo una predica inutile.
In alcuni paesi, il voto è un dovere legale, non adempierlo comporta una multa. Il Brasile multa chi non vota con una cifra irrisoria (quasi un euro) ma non lo è per i poverissimi brasiliani che sarebbero i primi naturali astensionisti. Obbligare a votare è una scorciatoia che dovrebbe servire a ottenere con poca fatica una pratica di “dovere civico”. Non soddisfa e non convince.
Astensionismo e libertà
Il suffragio è un diritto a tutti gli effetti, del quale godiamo sempre e comunque, anche quando ci asteniamo. Anzi, l’astensione è un segno di libertà: nei regimi totalitari le piazze devono essere riempite e ai plebisciti si deve votare. La libertà politica consente il pieno uso del suffragio. Questo è un fatto che la straordinaria non partecipazione alle recenti elezioni amministrative non mette in discussione.
Ma l’astensionismo dovrebbe preoccupare. Questa valanga di assenze fa pensare alla mossa usata dalla plebe di Roma per marcare la propria essenzialità: lasciare la città a chi occupava il potere, sapendo che quel potere contava poco senza la massa dei senza potere. Ma l’astensionismo non ha questo potere deterrente e non è come andare sull’Aventino. Non è un’azione collettiva concertata.
L’astensione è individuale come il voto. Ma, è proprio per questo che la cifra ci impressiona: è come se un’unica idea fosse circolata tra milioni di cittadini che non comunicavano tra loro e li abbia fatti agire di concerto.
Ha scritto tempo fa Fulco Lanchester, che «le motivazioni di una simile decisione possono essere le più differenti (indifferenza, negligenza, indecisione, protesta, obiettivi tattici o strategici)». Ebbene, quelle differenti motivazioni si sono manifestate in maniera così massiccia da fare immaginare un’azione collettiva.
È vero che il voto vale comunque: fino a quando si può determinare una maggioranza è in teoria tutto normale, anche se i votanti fossero tre. Ma benché la procedura non perda il suo valore formale, un astensionismo di questa portata non può non lasciare attoniti, anche perché riguarda il governo più vicino ai cittadini, quello della propria città.
Ai conservatori ciò non disturba; per loro, vota chi ha più potere sociale e quindi nonostante il suffragio universale i pochi contano di più, come dovrebbe essere. Ma un democratico non può fare questo ragionamento perché non ambisce a che le cariche politiche e amministrative siano blindate.
Le opinioni ignorate
Il declino di interesse per il voto è segno di una relazione di indifferenza e fastidio con la politica e i loro praticanti, tra i quali va inclusa la pletora di intrattenitori televisivi e cartacei che hanno monopolizzato a tutti gli effetti l’opinione.
Il cittadino è sondaggiato sulle opinioni che interessano i mandanti del sondaggio; le sue opinioni sono ignorate, letteralmente. Quindi, se si vuol fare un esame delle ragioni della disaffezione al voto si deve volgere lo sguardo prima di tutto a coloro che sono i professionisti della politica: dalla formazione dell’opinione, alla discussione informale pubblica, alle campagne elettorali.
Abbiamo da un po’ di anni una situazione che si potrebbe chiamare di monopolio della parola (populistico o non che sia). E abbiamo un associazionismo politico-partiti che ha sempre più un’identità circense, interessato a lanciare giocolieri e battere cassa con i like, desideroso di un pubblico infantilizzato che ride e applaude a comando.
L’Aventino del non-voto è anche rispetto a questo gioco politico, che evidentemente non piace. Se l’associazionismo politico si rianimerà nelle forme del discorso e della passione civica, anche gli elettori torneranno a giocare (il buon risultato del Pd di Enrico Letta potrebbe essere indicativo).
«Portarli a votare» è un’espressione paternalista che ricorda i genitori che portano i figli a scuola. A votare ci si va per propria scelta. Per esserci scelta deve esserci un’offerta convincente. Non basta fare il tour dei quartieri popolari per essere scelti dal popolo. Non basta anche perché, diceva Machiavelli, il popolo ha una saggezza non improvvisata.
© Riproduzione riservata