- Dovrebbe suscitare qualche pensiero – o preoccupazione – il fatto che la categoria di identità, a distanza di nemmeno trent’anni da quando il suo uso politico ha sortito effetti atroci nel cuore dell’Europa, si proponga di ispirare una nuova destra larga e mainstream.
- Nel suo Identità e violenza, Amartya Sen ha evidenziato i danni che può provocare una visione «riduzionista», che pretenda di dare rilevanza a un unico criterio per classificare i gruppi umani – la religione, la civiltà… – a dispetto dell’appartenenza simultanea di ogni individuo a molte categorie distinte.
- Un riduzionismo simile è quello che opera oggi la destra quando politicizza l’identità, evocando una presunta minaccia alla sua sopravvivenza.
Tra fiocchi, pacchetti e ghirlande verdi e rosse, i manifesti fanno pensare a una fiera degli addobbi per le feste. Si tratta, invece, del «Natale dei conservatori» di Atreju, la tradizionale manifestazione dei giovani di Fratelli d’Italia che si inaugura il 6 dicembre.
Come ha fatto intendere Giorgia Meloni nella conferenza stampa di lancio, il Natale è qui da intendere in senso duplice: non si tratta solo di «difendere» la festa della nascita di Gesù, ma anche di celebrare l’avvento di un’alternativa «conservatrice» al «pensiero unico dominante», che unisca anime diverse della destra.
La svolta conservatrice di Meloni – che del resto presiede in Europa il gruppo dei Conservatori e Riformisti – è stata accolta da molti come un tentativo di normalizzazione, di allontanamento dagli accenti sovranisti e populisti.
Quello che però sembra sfuggire ai più è la torsione che questo tentativo imprime alla stessa etichetta di «conservatori», mettendo al centro la categoria di identità.
L’identità, dice la leader di FdI, è «la cosa più preziosa che abbiamo», è ciò che va «conservato» nel tempo della globalizzazione, contro chi la vorrebbe «omologare e cancellare». Lo scontro è dunque, inequivocabilmente, tra chi fa della religione o della nazione la radice unica dell’appartenenza, e chi esalta al contrario il pluralismo delle società aperte.
Dovrebbe suscitare qualche pensiero – o preoccupazione – il fatto che la categoria di identità, a distanza di nemmeno trent’anni da quando il suo uso politico ha sortito effetti atroci nel cuore dell’Europa, si proponga di ispirare una nuova destra larga e mainstream.
Nel suo Identità e violenza, Amartya Sen ha evidenziato i danni che può provocare una visione «riduzionista», che pretenda di dare rilevanza a un unico criterio per classificare i gruppi umani – la religione, la civiltà… – a dispetto dell’appartenenza simultanea di ogni individuo a molte categorie distinte.
È quando rimuove la pluralità di differenze interne ai gruppi che l’identità può diventare fonte di violenza, o quantomeno di esclusione.
Un riduzionismo simile è quello che opera oggi la destra quando politicizza l’identità, evocando una presunta minaccia alla sua sopravvivenza. L’identità è definita «forte», ma si alimenta di continui stati di panico, che servono a ingigantire la rappresentazione dei poteri con cui è costretta a combattere.
È questo che è accaduto intorno alle ormai celebri linee guida della Commissione europea sul linguaggio inclusivo, che invitavano a non dare per scontato nella comunicazione istituzionale «che tutti siano cristiani». Meloni l’ha definito un documento «delirante», che «esclude l’identità». Ma basta davvero così poco a mettere in pericolo il senso di sé di cristiani e «patrioti»? Le identità «forti» sono a ben vedere molto fragili?
In realtà, la retorica della minaccia appare un trucco. Un’invenzione retorica per nascondere quella che a tutti gli effetti è la difesa di un privilegio, della posizione delle maggioranze sulle minoranze, dei gruppi dominanti sui dominati.
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