Una premessa. Conosco e stimo Augusto Barbera, presidente della Consulta. Ciò non mi impedisce di esprimere una rispettosa riserva circa l’opportunità che egli, da presidente della Consulta, si esponga sul tema delle riforme costituzionali e istituzionali in cantiere. Riforme tanto controverse e oggetto di aspra contesa politica. Come egli ha fatto in una lunga intervista al Sole 24 ore.

Mi limito a un solo punto, laddove Barbera cita Giuseppe Dossetti. Mi sento titolato a farlo, avendo organizzato io stesso varie uscite pubbliche del vecchio costituente quando egli, tra il 1994 e il 1995, rompendo un trentennale riserbo monastico, sentì il dovere di levare alta e forte la sua voce contro quelli che giudicava stravolgimenti della Costituzione ispirati a un mix di bonapartismo e secessionismo, rispettivamente intestati alla coppia Berlusconi-Bossi. Un disegno e un patto non molto dissimile dal baratto di oggi tra Fdi e Lega.

Le parole di Dossetti citate da Barbera davano conto di una circostanza ovvia e innegabile: i costituenti, reduci dalla dittatura, comprensibilmente, diffidavano di soluzioni istituzionali che conferissero un esorbitante potere al governo. Non è una notizia.

È doveroso tuttavia osservare che, dopo la vittoria berlusconiana del 1994, Dossetti riprese la parola per contrastare già allora soluzioni di stampo presidenzialistico che mortificavano parlamento e presidenza della Repubblica. Basti evocare alcune espressioni forti ed eloquenti di quella sua «difesa attiva» della Costituzione dalle suggestioni delle nuove destre (Fi e Lega). Cito: i «bollori presidenzialisti», la «seduzione ingannatrice del capo», il «mito fallace della sovranità popolare» che si rovescia nel suo contrario, l’«illusione della democrazia diretta», le «inclinazioni cesariste e bonapartiste», il «bugiardo, irrazionale e incomponibile abbinamento tra federalismo e presidenzialismo», il «malcelato conflitto tra governo e Quirinale», le «assemblee parlamentari ridotte a sgabello o cassa di risonanza del presidente del Consiglio da licenziare quando non servono più». Parole taglienti che sembrano scritte oggi.

Su queste basi, fu Dossetti a ideare e dare vita a Comitati di cittadini “per la Costituzione” atti a contrastare le “minacce palesi o occulte” ad essa.

Di più: egli avvertì circa il possibile snaturamento dell’istituto referendario in materia costituzionale che si stagliava (e si staglia) all’orizzonte brandito dal governo, ove il «quesito implicito» inesorabilmente finisce per fare premio sul «quesito esplicito» e formale (ovvero il giudizio di merito sulla riforma, anche a motivo della complessità e tecnicalità della materia) e cioè il seguente: hai tu fiducia nel premier e nel governo che te la propone al modo di «soluzione pacchetto»? Ti fidi o, meglio, ti affidi a lui (o lei). Come puntualmente fu nel caso della riforma Renzi. E tanto più nel caso nostro oggi che ha per oggetto il «premierato assoluto», la «madre di tutte le riforme» (Meloni dixit) che ci introduca a una nuova Repubblica intestata a una «madre», oggettivamente e soggettivamente, estranea se non ostile alle culture dei «padri» costituenti.

Il Dossetti che abbiamo conosciuto e della cui lezione merita fare tesoro è quello inequivocabilmente scolpito in quel suo fermo, lungimirante monito a difesa della democrazia costituzionale, dei suoi principi, dei suoi equilibri, della sue garanzie. Contro le derive plebiscitarie e le sirene della «capocrazia».

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