- In campagna elettorale si dice sempre più spesso che per affrontare i problemi di approvvigionamento di metano bisogna estrarre di più in Italia. Da ultimo Nicola Procaccini, responsabile energia di Fratelli d’Italia.
- Il calo dell’usptream non è figlio dell’“ideologismo ambientalista”, ma i dati forniti dal ministero della Transizione raccontano che la produzione di gas è andata precipitando perché le compagnie sono state spinte dal criterio della massimizzazione dei profitti.
- Le disponibilità restano poche, e oggi perché siano utili occorrerebbe un doppio colpo di bacchetta magica: estrarle tutte subito e destinarle al solo mercato interno. E poi?
In campagna elettorale si dice sempre più spesso che per affrontare i problemi di approvvigionamento di metano bisogna estrarre di più in Italia. Da ultimo Nicola Procaccini, responsabile energia di Fratelli d’Italia: «Riteniamo che una delle risposte alla crisi energetica e alla necessità di svincolarci dalla dipendenza da altri paesi fornitori sia aumentare in tempi brevi la produzione del gas naturale», ha detto in un’intervista su Staffetta Quotidiana pubblicata oggi. La verità è che non è conveniente come sembra.
Il caso Ombrina
Facciamo un passo indietro. L’esito sfavorevole all'Italia dell'arbitrato internazionale sul mancato rilascio della concessione di coltivazione Ombrina Mare della settimana scorsa ha suscitato le immediate e veementi reazioni di alcune forze politiche, segnatamente di centrodestra, dimentiche di essersi schierate nel 2016 contro nuove estrazioni in mare entro le 12 miglia marine.
Le argomentazioni spese sono quelle note: «... l’Italia è rimasta senza energia per colpa dell’ideologismo ambientalista … col gas nazionale, che non sfruttiamo, potremmo abbassare le bollette» e altre amenità del genere.
L’ “ideologismo ambientalista”, in realtà, ha poco a che fare con la débâcle dell'upstream in Italia; a dirlo sono i dati forniti dal Mite che ci raccontano tutt’altra storia: la produzione di gas è andata precipitando anche in anni in cui in Italia non esisteva alcun movimento di opposizione alla ricerca ed all’estrazione di gas, passando dai 12.531,48 milioni di metri cubi del 1980 ai 9.633,61 milioni di metri cubi del 2007 (- 23%) per poi precipitare fino ai 3.498,68 milioni di metri cubi del 2021.
Semmai, a fronte di consumi finali che raggiungono l’apice nel 2003 e poi decrescono e di esportazioni sostanzialmente irrilevanti, negli stessi anni aumentano invece in modo significativo le importazioni: dai 54.775 milioni di metri cubi del 2001 ai 72.728 milioni di metri cubi del 2021.
Se, dunque, la produzione nazionale di gas diminuisce anche quando i consumi finali crescono e tutto questo avviene in assenza di movimenti di opposizione alle fonti fossili; se contestualmente però crescono i volumi di gas importato, allora la conclusione può essere una soltanto: il criterio della massimizzazione dei profitti e della minimizzazione del rischio ha fatto sì che quote di produzione nazionale fossero sostituite da gas importato a prezzi stabili e favorevoli.
Le compagnie
Le compagnie Oil&Gas (Eni in testa) sono state attrici di questo processo di cannibalizzazione e i governi degli ultimi 20 anni hanno acconsentito, ignorando scientemente i profili della sostenibilità climatica, della sicurezza e dell’autosufficienza energetica.
Per quanto concerne il gas, l’enorme potenziale minerario italiano è quantificabile facendo riferimento alle riserve valutate dal Mite al 31 dicembre 2021: pari a 39.850 milioni di metri cubi quelle certe, a 44.472 milioni di metri cubi quelle probabili e, infine, 26.753 milioni di metri cubi quelle possibili.
Se fossero resi disponibili soltanto per il mercato interno 70/80 milioni di metri cubi di gas, perché più di tanto non si può, gli stessi coprirebbero il fabbisogno italiano di gas per poco più di 11/12 mesi. Per centrare questo obiettivo occorrerebbe un doppio colpo di bacchetta magica: estrarle tutte subito e destinarle al solo mercato interno. E poi?
Più realisticamente, i maggiori quantitativi di gas estraibili su terra ferma e in mare sarebbero ben poca cosa rispetto alle dimensioni della domanda interna (76 miliardi di metri cubi nel 2021) e, pertanto, incapaci di garantire la discesa del prezzo del gas. Lo sono a maggior ragione i 2,2 miliardi di metri cubi di gas che il governo Draghi ha pensato di racimolare, chiedendo alle società titolari di concessioni oltre ed a cavallo della linea della 12 miglia marine di manifestare il loro interesse a stipulare contratti decennali con il Gse a prezzo calmierato.
Le logiche speculative
La formazione del prezzo del gas, come noto, risponde ad altre logiche, spesso speculative, e imporrebbe, cosa che l’Unione Europea sta prendendo in seria considerazione, l’abbandono della Borsa del gas di Amsterdam, l’obbligo di trasparenza sul costo di acquisto del gas importato e l’imposizione di un tetto massimo basato sul valore di Henry Hub.
La ricerca del profitto a tutti i costi e il prevalere degli interessi finanziari su quelli relativi alla sicurezza energetica e sugli obiettivi climatici, continuano a trascinarci in una situazione apparentemente irrisolvibile, scaricando sulla collettività costi economici, sociali ed ambientali incalcolabili. Motivazioni che però hanno trovato facile sponda in una classe politica poco esperta di questi temi, quella stessa che oggi sventola la bandiera di una finta difesa degli interessi nazionali.
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