- La decisione di patteggiare nel processo genovese per il collo del ponte Morandi è la prima conseguenza dell’accordo che dovrebbe portare il controllo di Autostrade per l’Italia di nuovo allo Stato, dopo il ventennio lungo della famiglia Benetton.
- Lo stato non processa lo stato: finisce così la parte che riguarda la responsabilità aziendale del concessionario nel disastro del viadotto Polcevera il 14 agosto 2018, con i suoi 43 morti e lo strascico di polemiche che ne sono seguite (di fatti, invece, ne sono seguiti pochi).
- La condanna, infatti, poteva comportare la pena accessoria dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, aveva già avvertito anche l’Avvocatura generale dello stato.
La decisione di patteggiare nel processo genovese per il collo del ponte Morandi è la prima conseguenza dell’accordo che dovrebbe portare il controllo di Autostrade per l’Italia di nuovo allo Stato, dopo il ventennio lungo della famiglia Benetton. Lo stato non processa lo stato: finisce così la parte che riguarda la responsabilità aziendale del concessionario nel disastro del viadotto Polcevera il 14 agosto 2018, con i suoi 43 morti e lo strascico di polemiche che ne sono seguite (di fatti, invece, ne sono seguiti pochi).
Questa scelta sblocca il passaggio delle quote di controllo da Atlantia, la società al centro della galassia Benetton, alla nuova cordata di soci guidata dalla Cassa depositi e prestiti, a sua volta controllata dal ministero del Tesoro.
I dubbi sul passaggio di quote
A fine 2021, la Corte dei conti aveva espresso molte riserve sull’accordo transattivo del luglio 2020 che riguarda il destino di Autostrade per l’Italia. In particolare, i magistrati contabili Ugo Montella, Marco Boncompagni e Franco Massi avvertivano i ministeri competenti del rischio che le conseguenze del processo penale a Genova portassero addirittura alla decadenza della concessione, che rappresenta il grosso del valore dei Autostrade.
Senza concessione, lo Stato si troverebbe ad aver pagato miliardi per una scatola vuota. L’accordo transattivo «diverrebbe privo di causa nel caso in cui la controparte perdesse il titolo alla concessione, qualora il provvedimento penale in corso (che vede Aspi coinvolta per il crollo del ponte Morandi) giungesse al dibattimento e si concludesse con l’accertamento della responsabilità del concessionario».
La condanna, infatti, poteva comportare la pena accessoria dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, aveva già avvertito anche l’Avvocatura generale dello stato. Con il patteggiamento, non ci può essere la condanna, anche se si potrebbe discutere se la scelta di questo “rito alternativo” (come lo definiscono i comunicati di Autostrade) configuri una ammissione di responsabilità.
Autostrade pagherà 30 milioni di euro che, secondo la procura, rappresentano «il risparmio di spesa realizzato dalla società mediante l’omissione dell’intervento che avrebbe evitato la commissione dei reati di omicidio colposo aggravato plurimo e di lesioni colpose aggravate plurime».
Lo Stato, quindi, incassa 30 milioni da una azienda che, se li avesse spesi per la manutenzione dei piloni del ponte Morandi, avrebbe potuto evitare la morte di 43 persone e l’accusa di omicidio colposo e lesioni colpose aggravate. Così, lo stesso Stato avrà diritto di pagare senza problemi quasi 9 miliardi di euro ad Autostrade.
Se invece Autostrade fosse stata condannata per le responsabilità che, di fatto, ammette con il patteggiamento e il pagamento dei 30 milioni, lo Stato avrebbe potuto dichiarare decaduta la concessione, recuperare a costo zero il controllo delle tratte e assegnarle ad altri concessionari capaci di gestirle senza, possibilmente, far cadere i ponti loro affidati.
Ma quella politica che è stata così pienamente catturata dai Benetton – o che li ha usati a lungo come ben remunerato strumento di elargizione di favori e lavori – ha deciso da tempo che la vicenda Autostrade deve chiudersi con una sola vittima aggiuntiva rispetto a quella di Genova, cioè il contribuente italiano e le generazioni future a cui vengono accollati i miliardi della transazione.
L’ultimo favore
Come ricostruito dal giornalista Gianni Dragoni nel suo libro La sacra famiglia (Chiarelettere), la Cassa depositi e prestiti e i fondi che la sostengono pagheranno 9,1 miliardi per il cento per cento di Autostrade. Di questi, 9,2 miliardi andranno ad Atlantia, per la quota dell’88 per cento che detiene in Autostrade.
A questi si possono poi aggiungere 264 milioni di euro per probabili rimborsi assicurativi (i danni li paga il nuovo socio, i rimborsi li incassa quello vecchio: perché?), poi altri 264 milioni per possibili indennizzi Covid, per un totale di circa 8,73 miliardi di euro.
Inoltre, osserva Dragoni, «nell’offerta è previsto che, qualora nei dodici mesi successivi al closing l’acquirente venda tutte o parte delle azioni Aspi, oppure i soci vendano almeno il 50 per cento del capitale del veicolo acquirente, sia versata ad Atlantia la plusvalenza, cioè la differenza tra il prezzo di vendita e il prezzo di acquisto Aspi».
Così viene escluso, per via contrattuale, che l’investimento possa rivelarsi un buon affare per lo Stato, che è condannato a tenersi Autostrade sia che l’azienda vada male (nessuno la comprerebbe) sia che vada bene (la plusvalenza finirebbe ad Atlantia).
Nove miliardi per far che?
Ora, la grande domanda a cui qualcuno dovrebbe rispondere è la seguente: ma cosa se ne fa lo Stato e la Cassa depositi e prestiti di Autostrade? Cioè, perché sta investendo 9,1 miliardi in un asset che va contro tutte le priorità che ci siamo dati nel mondo del Covid, prima che la guerra in Ucraina facesse dimenticare per un attimo crisi climatica, transizione ecologica e necessità di crescita sostenibile? Cioè, è molto chiaro a chi stiamo risolvendo un problema, cioè ad Atlantia e ai Benetton.
Non è altrettanto chiaro quale sia il disegno del nuovo azionista pubblico. Al momento sembra sia stato soltanto quello di preservare il valore dell’asset: con il patteggiamento a Genova e, prima ancora, con il nuovo Piano economico e finanziario contestato a fine 2020 dal presidente uscente dell’Autorità dei trasporti Andrea Camanzi: anche dopo il ponte Morandi, lo Stato continuava a garantire profitti assurdi a un concessionario che, peraltro, si era dimostrato incapace anche di garantire l’incolumità ai suoi utenti.
Altri scenari sarebbero stati più auspicabili, la revoca o altre misure più drastiche avrebbero creato qualche sconquasso, ma più ai Benetton che allo Stato. Comunque, se questo accordo transattivo verrà finalizzato, bisogna che almeno qualcuno – al ministero del Tesoro, a palazzo Chigi o alla Cassa depositi e prestiti – ci spieghi come giustifica quei 9,1 miliardi.
Potrebbe perfino venirne fuori qualcosa di buono, si potrebbero pensare spacchettamenti della rete in lotti più piccoli e più gestibili, togliere i pedaggi su alcune strade, gradualmente smantellare quell’obbrobrio che è stato il modello delle concessioni autostradali, specie alla luce del fatto che lo Stato dovrà sostenere investimenti miliardari in manutenzione (quelli che i Benetton hanno risparmiato, trasformandoli in dividendi).
Di sicuro, conservare il valore dell’asset non può essere l’unico obiettivo, anche perché la Cassa depositi e prestiti non lo sa fare: quando ha comprato azioni Saipem nel 2015, queste valevano circa dieci euro, oggi meno di uno, dai primi acquisti nel 2018 il valore del titolo di Tim si è quasi dimezzato, e così via.
Nonostante la guerra, anzi, proprio per la guerra che rende così oneroso carburante e spostamenti in auto, dobbiamo parlarne. Perché mettiamo 9,1 miliardi in Autostrade?
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