I Giochi olimpici 2024 i primi del fifty-fifty tra atlete e atleti, li ricorderemo anche come i giochi delle parole: dell’uguaglianza che non è sinonimo di equità, della partecipazione che non è inclusione, dell’agonismo che non è vittoria. Resteranno nella memoria come le Olimpiadi di un successo di tappa in un giro ad ostacoli ancora lungo: un percorso disseminato di barriere culturali che creano pensieri tossici, che diventano abissi, che inghiottono vite.

La cerimonia di apertura ci aveva già dato una misura della volontà di andare avanti rompendo col passato, dando un calcio ai pregiudizi e valorizzando la diversità. Ma le reazioni del giorno dopo dovevano metterci in guardia che non a tutti sarebbe piaciuto, che non tutti sono pronti.

L’evento a cinque cerchi e la sua potenza comunicativa accelerano alcuni processi, tant’è che l’ONU ha chiesto sinergia al Comitato olimpico internazionale (CIO) per raggiungere gli obiettivi dell’agenda 2030, di cui uno è la parità di genere e inclusione. Il CIO da parte sua ha emanato delle linee guida invitando i comitati olimpici nazionali a tradurle in buone pratiche di rispetto, trasformando la tolleranza della diversità in valorizzazione dell’originalità.

Ma il motto “50 e 50” ci rivela quanto la parità numerica tra atlete e atleti, sia solo un aspetto. I numeri senza cultura sono semplicemente “quote” come appunto quelle antidiscriminatorie di genere ovvero mezzi per velocizzare il superamento di un problema. Partecipazione, leadership, sicurezza, allocazione delle risorse sono 4 dei 5 pilastri delle linee guida del CIO. Il quinto si chiama “portrayal” e sta a indicare l’immagine, la rappresentazione che si dà a ciò che si racconta, vuole evidenziare l’enorme responsabilità della narrazione.

ANSA

Prendere scorciatoie, semplificare, generalizzare, riportare il sentito dire, sono distorsioni della realtà pericolose che diventano luoghi comuni, stereotipi sia pure se accompagnati con la leggerezza di una risata. La piramide dell’odio ci ricorda bene che sono i pregiudizi l’humus su cui cresce il seme dell’intolleranza. È lì che affondano le radici anche gli atti di violenza più efferati.

Ed è da lì che ognuno, a partire dalla propria quotidianità, può fare la differenza. Purtroppo dal racconto di queste prime giornate olimpiche abbiamo ricevuto perle di narrazione tossica e evidenze dei suoi intrecci tra disinformazione e misinformazione: un misto micidiale di intenzionalità, leggerezza e strumentalizzazione con cui si falcia la dignità altrui e si esclude. Perché tra mancare di rispetto all’emozione di Benedetta Pilato per il suo quarto posto olimpico (a 19 anni e per un centesimo di secondo) e sbranare di cattiverie e falsità la boxeur algerina, Imane Khelif, rea di non rientrare naturalmente negli artificiosi compartimenti stagni del binarismo, un denominatore comune c’è e si chiama paura.

Sì, la paura delle infinite sfumature che separano i due assoluti. Il giorno in cui Benedetta Pilato staccò il pass per le Olimpiadi, nell’intervista post gara scoppiò in lacrime ricordando il femminicidio di Giulia Cecchettin e disse che non poteva credere di vivere in un mondo in cui le donne devono essere ogni giorno coraggiose. Per ironia (?) della sorte invece, è proprio lei con il suo coraggio e la sua integrità, a far vacillare coloro che (anche donne) temono le sfumature e non capiscono le sue emozioni così come non comprendono il successo personale con cui ha riempito quel benedetto centesimo

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