Le analisi dell’Ispi, l’Istituto studi di politica internazionale per Domani: che succede se vince Trump? E cosa cambia se vince Biden?
- Gli americani non hanno mai avuto una opinione così negativa della Cina, dicono i sondaggi. In uno dei rarissimi esempi di convergenza bipartisan, si tratta di un giudizio che unisce repubblicani e democratici.
- Lo si è visto bene nell’ultimo dibattito tra Trump e Biden, quando è stato l’ex vice-presidente a fare la parte del falco anti-cinese.
- È quindi logico ritenere che le tensioni di questi ultimi anni continuino a prescindere dall’esito del voto.
L’esito delle elezioni statunitensi avrà un impatto inevitabile sui rapporti tra Stati Uniti e Cina. Joe Biden non è Donald Trump e in caso di vittoria proverà a rilanciare un modello di diplomazia multilaterale lontano dal ruvido nazionalismo dell’attuale presidente. Molti problemi sono però destinati a rimanere sul tavolo.
La relazione tra le due principali potenze dell’ordine internazionale è infatti oggi precaria, ambigua e potenzialmente pericolosa. Perché essa contiene degli elementi oggettivi di antagonismo. E perché, fattasi sempre più profonda e intensa, ha creato un reticolo inestricabile di interazioni tra le due parti, rendendole dipendenti l’una dalle azioni (e dalle scelte politiche) dell’altra. Creando ed espandendo una forma d’interdipendenza che è stata centrale nei processi d’integrazione globale degli ultimi 30/40 anni.
La globalizzazione ha corso sulle ali di questa interdipendenza, nella quale convergevano molteplici dinamiche: le delocalizzazioni di tante aziende statunitensi in Cina; i profitti, crescenti, che queste generavano e che tornavano subito negli Usa; le merci importate negli Usa e consumate a ritmi elevatissimi e inflazione costante; il debito pubblico americano tesaurizzato dalla Cina per sussidiare la capacità di consumo statunitense e tenere artificialmente bassa la propria valuta; le centinaia di migliaia di studenti cinesi che andavano a studiare nelle università americane; finanche un ordine securitario in Estremo Oriente basato su una rete di alleanze bilaterali tra gli Usa e diversi partner regionali, costruito sì in funzione anti-cinese, ma che Pechino apprezzava in quanto garante di ordine e stabilità.
L’economia cinese cresceva a ritmi accelerati, come i profitti delle aziende statunitensi, come i consumi privati alimentati, negli Usa, da credito facile e deregolamentato.
La Cina entrava nel Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, e contribuiva anch’essa al funzionamento dell’ordine globale.
A lungo questa interdipendenza, e i tanti compromessi che vi sottostavano, parve insomma funzionare. Almeno fino alla crisi del 2008, che ne ha esposto i molti aspetti problematici e che tanto spiega dell’ascesa politica di Donald Trump.
Un elemento centrale della globalizzazione centrata sull’asse Washington-Pechino è stato il crescente impoverimento di un ceto medio vittima delle dinamiche di de-industrializzazione che vi sottostavano, spesso incapace di riqualificarsi e di trovare un proprio spazio in una società di servizi avanzati oltre che, quando occupato in lavori autonomi o nella piccola impreditoria, in difficoltà nel reggere la nuova competizione globalizzata.
Un ceto medio che nel 2008 vedeva venir meno quell’ammortizzatore sociale indiretto, ma potentissimo – i consumi a debito – che aveva fino ad allora permesso di contenerne gli effetti.
Un’altra promessa della globalizzazione non pareva realizzarsi: alla crescente integrazione economica della Cina non si accompagnava quella graduale liberalizzazione politica che molti avevano dato per scontato.
Anzi, la crescita della potenza cinese si manifestava anche nel desiderio di Pechino di contestare, almeno in Asia, il primato degli Usa.
Un’America in sofferenza e difficoltà, quella post-2008. E un’America impaurita e sfidata. Questi due elementi tanto ci spiegano della ostilità trasversale e diffusa verso il gigante cinese che vi è oggi negli Usa.
I sondaggi Gallup mostrano come mai, dal 1979 a oggi, gli americani hanno avuto un’opinione così negativa della Cina. Soprattutto, in uno dei rarissimi esempi di convergenza bipartisan, si tratta di un giudizio che unisce repubblicani e democratici.
Lo si è visto bene nell’ultimo dibattito tra Trump e Biden, quando è stato l’ex vice-presidente a fare la parte del falco anti-cinese.
È quindi logico ritenere che le tensioni di questi ultimi anni continuino a prescindere dall’esito del voto. Tensioni inevitabili, non ultimo per le pressioni dell’opinione pubblica statunitense. Ma tensioni che generano politiche – come le guerre commerciali di Trump – nelle quali all’alto contenuto simbolico fanno da controcanto limitate conseguenze pratiche tanto che nel 2017 e nel 2018 gli Usa hanno avuto con la Cina i loro più alti deficit commerciali di sempre.
La strada, di certo più percorribile con Biden presidente, sarebbe quella di rilanciare su nuove basi – e con regole aggiornate – l’interdipendenza sino-statunitense. Ma è una strada impervia, che la politica statunitense, la crisi della globalizzazione e, non ultimo, la virata autoritaria e nazionalista di Pechino sembrano oggi spingere in tutt’altra direzione.
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