In un’organizzazione ormai in declino, snobbata dai vecchi presidenti americani, per ironia della sorte è stato proprio Joe Biden a tentare di dare lustro alla più opaca sessione generale dell’Onu degli ultimi tempi. Ma questo non basta. L’Italia avrebbe l’occasione di invertire la tendenza sfruttando il suo know-how nelle operazioni di peacekeeping. Il tema però è inesistente nel nostro dibattito pubblico
Per ironia della storia è stato proprio un presidente americano, dopo i tanti che l’hanno snobbata, a tentare di dare lustro alla più opaca sessione generale dell’Onu degli ultimi tempi. L’intervento di Joe Biden, molto misurato e problematico contrariamente alle filippiche anti russe di un anno fa, non basta a fornire linfa vitale ad un organismo in via di accelerato deperimento.
Il presidente americano ha ricordato, come tantissimi in questo ultimo anno, la carta dell’Onu laddove richiama la sovranità di una nazione e l’inviolabilità delle sue frontiere. Un richiamo corretto benché un po’ forzato se pensiamo ai tanti casi in cui altre azioni contro paesi sovrani sono stati effettuati con motivazioni più o meno plausibili e nobili.
Proprio per giustificare tali interventi, dopo l’orrendo massacro tra tutsi e hutu in Rwanda e quello dei musulmani bosniaci a Sebrenica – e i due film coraggiosi quanto agghiaccianti che li ricordano, Hotel Rwanda e Quo vadis Aida? meriterebbero di essere regolarmente riproposti – era stato elaborato il Right to Protect, cioè il diritto di intervenire allorché si stia commettendo un massacro di popolazioni inermi.
Benché adottato formalmente dall’Onu solo nel 2005, questo nuovo principio era stato applicato, in parte strumentalmente, nel 1999 in Kosovo, giustificando così una amputazione della sovranità territoriale della Serbia.
L’ organizzazione svuotata
Al di là della applicazione più o meno distorta del Right to Protect, le Nazioni Unite non giocano più alcun ruolo nelle crisi internazionali. E non solo a livello diplomatico. Anche i caschi blu, la struttura militare di intervento nelle aree di crisi, sono quasi una vestigia del passato.
Eppure, quando vennero promossi, nel primo dopoguerra, per iniziativa del brillante politico canadese Lester Pierson, riscossero consensi unanimi e importanti risultati, a incominciare dalla missione di peacekeeping dopo la crisi di Suez, per la quale lo stesso Pierson ricevette il premio Nobel della Pace nel 1957.
I caschi blu hanno visto erodersi progressivamente il loro ruolo. E, soprattutto, la loro reputazione è crollata a causa del vergognoso comportamento del contingente a guida olandese di stanza in Bosnia, al quale spettava il compito di proteggere i civili poi, invece, massacrati delle milizie serbe di Ratko Mladic.
Soltanto in Libano dopo un ennesimo conflitto tra israeliani e milizie di Hezbollah, in virtù della capacità di gestione delle crisi del contingente italiano, la missione Onu Unifil garantisce dal 2006 la pace in quell’area. Ma è un caso isolato. Ormai la presenza militare dell’Onu, ancora attiva in 12 aree di crisi, è quasi sempre irrilevante e non costituisce né un deterrente né una opzione risolutiva.
L’occasione per l’Italia
L’Italia ha sviluppato un particolare know-how, universalmente riconosciuto, nelle missioni di peacekeeping per le quali è uno dei maggiori sostenitori in termini finanziari. Avrebbe quindi le carte in regola per riportare sotto i riflettori la questione della presenza dei corpi di pace nelle zone critiche.
Ma sarebbe necessario che ritornasse nel dibattito pubblico, in Italia e livello globale, il tema della pace. Invece oggi risuona insistentemente quello della guerra. Ancora un po’ e avremo chi proclamerà che la guerra è bella, come ai tempi andati. Ogni conflitto armato è una sconfitta dell’umanità e l’organismo che raccoglie tutte le nazioni dovrebbe risvegliarsi.
L’Italia potrebbe incominciare a tessere le fila per una inversione di tendenza. Non è utopismo da anime belle. Risponde alla ricerca di una strada diversa dall’imbarbarimento. E chi ha idee migliori si faccia pure avanti.
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