- Non riuscendo a sentirsi in cuffia e vedendo ignoranti i suoi ripetuti segnali ai tecnici, il (quasi) ventenne cantautore di Brividi, ha cercato di riempire comunque il suo momento, spingendosi un po’ oltre qualcosa che in realtà era con tutta probabilità già previsto.
- Ma le reazioni della platea – reale e social – dicono molto della nostra incapacità di reggere un’anomalia, un’irruzione che scompiglia le carte. Non ha fatto male a nessuno, non ha raso al suolo il teatro: davvero molta, troppa indignazione per nulla.
- Si è letto di tutto in queste ore: dal desolante sciacallaggio mediatico dei politici a quello delle attiviste digitali che hanno gridato alla tossicità maschile. Io ho visto un ventenne che rideva, forse un po’ in imbarazzo.
Il fuoriprogramma di Blanco al debutto del 73° Festival di Sanremo è stato senza dubbio il mio momento preferito di tutta la serata. I fatti sono ormai noti: c’era già stato il duetto con Mahmood e Blanco era tornato sul palco da solo per presentare il suo nuovo singolo, L’isola delle rose. Non riuscendo a sentirsi in cuffia e vedendo ignoranti i suoi ripetuti segnali ai tecnici, il (quasi) ventenne cantautore di Brividi, ha cercato di riempire comunque il suo momento, spingendosi un po’ oltre qualcosa che in realtà era con tutta probabilità già previsto.
I calci alle rose
I calci alle rose erano parte della performance (basta recuperare il video del brano per rendersene conto): impossibilitato a cantare il rapper bresciano ha improvvisato un corpo a corpo coi fiori che a molti, per usare un eufemismo, non è piaciuto. Ma le reazioni della platea – reale e social – dicono molto della nostra incapacità di reggere un’anomalia, un’irruzione che scompiglia le carte.
Non c’era rabbia né vera protesta nell’esplosione di petali rossi, pelle e raso: è stato un gioco, estemporaneo e scomposto, in linea con lo spirito di Blanco che, non dimentichiamo, ha fatto irruzione sulla scena musicale come adolescente in mutande in corsa per i boschi.
Molto peggio è stato il coro degli indignati: Riccardo Fabbriconi – che compirà 20 anni tra due giorni – ha usato la sua scenografia nel modo che gli è venuto spontaneo, l’ha sfruttata per riappropriarsi di una performance alla deriva, e immettere vita dove tutto si stava spegnendo.
Si è letto di tutto in queste ore: dal desolante sciacallaggio mediatico dei politici a quello delle attiviste digitali che hanno gridato alla tossicità maschile. Io ho visto un ventenne che rideva, forse un po’ in imbarazzo, e che, giocando coi suoi musicisti (ridevano anche loro), si è assunto il rischio di deragliare, mettendoci di fronte alla nostra incapacità di uscire dai binari, di stare con ciò che non era previsto.
Non ha fatto male a nessuno, non ha raso al suolo il teatro: davvero molta, troppa indignazione per nulla. Era invece bellissimo Blanco, e lo è stato ancora di più mentre il pubblico dell’Ariston fischiava furioso, chiedendo la sua testa e rifiutando una seconda esibizione. È stata una fotografia di qualcosa di più grande: il singolo e la massa, il ragazzo e gli adulti, l’anomalia e la tradizione, le aspettative e il desiderio dell’artista.
In una serata senza grandi picchi e sorprese quello arrivato da Blanco è stato un monito prezioso: non siamo quasi mai capaci di metterci nei panni degli altri. Difendiamo il nostro territorio e pretendiamo di essere più rassicurati che scossi: quando le cose vanno diversamente ci uniamo compatti contro lo storto di turno. Non inventiamo quasi mai nuovi criteri per leggere la realtà, ci asserragliamo su quelli che già conosciamo. Stolidi, immobili, oltremodo impauriti.
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