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La politica italiana discute in questi giorni della proroga del blocco dei licenziamenti.
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Nel caso in cui il blocco non sarà prorogato, dal primo luglio le imprese che ricorreranno alla cassa integrazione Covid non saranno più soggette al divieto di licenziamento dei dipendenti. Le voci a favore dello sblocco, provenienti principalmente dal mondo delle imprese, fanno notare come l’Italia sia un caso isolato o quasi.
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A loro dire, si tratterebbe dell’unico grande paese europeo insieme alla Spagna ad aver introdotto questa misura. Ma è davvero così?
La politica italiana discute in questi giorni della proroga del blocco dei licenziamenti. Nel caso in cui il blocco non sarà prorogato, dal primo luglio le imprese che ricorreranno alla cassa integrazione Covid non saranno più soggette al divieto di licenziamento dei dipendenti. Le voci a favore dello sblocco, provenienti principalmente dal mondo delle imprese, fanno notare come l’Italia sia un caso isolato o quasi. A loro dire, si tratterebbe dell’unico grande paese europeo insieme alla Spagna ad aver introdotto questa misura. Ma è davvero così?
Prendiamo ad esempio la Francia. Di fronte alla crisi del Covid-19, lo stato ha solo in parte risposto con nuove misure. Perlopiù, però, non c’è stato bisogno di nuovi strumenti, ma di mobilitare dispositivi già esistenti. È il caso ad esempio del Piano di tutela del lavoro (Plan de sauvegarde de l’emploi – Pse). Si tratta di uno strumento che prevede diverse misure accomunate dallo scopo di evitare o limitare i licenziamenti, istituito nel 1989 sotto la presidenza Mitterrand e rivisto da Jospin nel 2002.
Nel caso in cui un’impresa sopra i 50 dipendenti voglia licenziare per motivi economici, è obbligata ad accedere a questo dispositivo, notificando all’autorità l’intenzione di ridurre il personale. L’autorità a quel punto interviene per negoziare insieme all’impresa e ai sindacati accordi collettivi per la modifica dei termini dei rapporti di lavoro. Tra questi ci sono il ricollocamento dei lavoratori all’interno o all’esterno dell’impresa, la creazione di nuove attività da parte del datore di lavoro, la formazione dei lavoratori in vista di un loro ricollocamento, la riduzione del tempo di lavoro, la possibilità di prepensionare i lavoratori vicini alla fine della loro vita professionale.
Un patto per la ristrutturazione
In cambio dell’autorizzazione a ristrutturare l’attività, l’impresa si impegna a licenziare il meno possibile, a ridurre gli stipendi dei dirigenti e a non distribuire dividendi agli azionisti. Nel periodo del Covid-19, lo stato francese ha rafforzato i controlli relativi ai Pse, con l’obiettivo esplicito di limitare il più possibile gli esoneri. Non è dunque un caso che, pure in assenza di un esplicito blocco dei licenziamenti, la riduzione dei posti di lavoro sia risultata meno accentuata in Francia che in Italia.
È fondamentale notare come il limite dei 50 dipendenti, in un paese come la Francia, assuma un significato molto diverso rispetto all’Italia. La struttura produttiva francese è infatti radicalmente diversa da quella italiana. In Francia, le imprese sopra i 50 dipendenti impiegano circa il 60 per cento della forza lavoro (dati Ocse). Il Pse riguarda dunque più della metà dei lavoratori francesi. In Italia, per contro, solo il 37 per cento dei lavoratori è impiegato in imprese sopra i 50 dipendenti.
Il secondo pilastro della lotta ai licenziamenti, ampiamente utilizzato dallo stato francese durante questa crisi, è stato il ricorso massiccio all’attività parziale. Si tratta di un dispositivo che permette alle imprese francesi (questa volta a tutte, non solo alle medie o grandi) di ridurre il tempo di lavoro dei dipendenti, trasformando dei posti a tempo pieno in posti a tempo parziale. Il lavoratore continua a percepire il 100 per cento dello stipendio, ma il datore di lavoro viene indennizzato dallo stato per le ore non lavorate. Ancora una volta, le imprese che accedono a questo strumento si impegnano a non licenziare, o dovranno rimborsare gli indennizzi. Questa misura, preesistente ma rafforzata durante la pandemia, è ancora in vigore e lo resterà nei prossimi mesi.
Infine, lo stato francese ha appena prorogato di altri tre mesi, fino ad agosto incluso, il bonus eccezionale istituito a novembre 2020 per i lavoratori precari. Questi ultimi sono stati anche oggetto di una critica della Commissione europea rispetto al blocco italiano dei licenziamenti. Secondo la Commissione, il blocco sarebbe discriminatorio nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, meno tutelati rispetto a quelli a tempo indeterminato. Una posizione di questo tipo è però a sua volta criticabile, in quanto il differenziale dovrebbe essere risolto fornendo tutele a chi non ne ha, non togliendone ai pochi che ne godono.
La misura francese, ad esempio, è destinata ai lavoratori di settori particolarmente colpiti dalla crisi e al tempo stesso ad alta intensità di lavoro flessibile (hotel, ristorazione, eventi, stagionali dell’agricoltura, lavoratori ad interim...). I lavoratori precari che alternano contratti corti e periodi di disoccupazione possono beneficiare di un aiuto eccezionale che garantisce loro un reddito minimo di 900 euro al mese.
In conclusione, se è vero che l’Italia ha dovuto introdurre una misura – il blocco dei licenziamenti – isolata in Europa, ciò è avvenuto perché negli altri paesi non c’è stato bisogno o quasi di misure eccezionali. Le leggi a tutela dei posti di lavoro hanno solo dovuto essere rafforzate nella loro applicazione, senza bisogno di promulgarne di nuove se non relativamente ad alcuni settori particolarmente colpiti.
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