- Quando Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia, afferma che «una famiglia senza figli non esiste» non si rivolge solo al suo elettorato. Si rivolge anche a tutte le coppie childfree del paese.
- Sembra dire loro: potevate fare di meglio. Si rivolge, più nello specifico, alle donne childfree in qualità di mamme mancate.
- Sembra dire loro: voi non esistete. Si rivolge anche a me, che ho un compagno con cui ho la fortuna di condividere i miei molti dubbi sulla genitorialità.
Quando Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia, afferma che «una famiglia senza figli non esisteZ non si rivolge solo al suo elettorato. Si rivolge anche a tutte le coppie childfree del paese. Sembra dire loro: potevate fare di meglio. Si rivolge, più nello specifico, alle donne childfree in qualità di mamme mancate.
Sembra dire loro: forse siete ancora in tempo a rendervi utili. Si rivolge, indirettamente ma con la massima indelicatezza, a tutte le persone che non possono avere figli per ragioni mediche, o perché limitate dalle leggi italiane in merito a procreazione assistita e gestazione per altri, o perché limitate dalle leggi italiane in merito alle adozioni.
Sembra dire loro: voi non esistete. Si rivolge anche a me, che ho un compagno con cui ho la fortuna di condividere i miei molti dubbi sulla genitorialità.
Del resto la donna childfree, prima ancora della coppia, è ancora vista come una creatura mitologica a metà strada tra l’algida regina cattiva delle fiabe e la vecchia strega un po’ pazza, triste e sola.
L’affermazione di Tajani ha trovato spazio nell’ambito della conferenza stampa di presentazione di “Mamma è bello”, serie di iniziative promosse da FI in vista della festa del nove maggio. E io credo che la scelta e l’utilizzo reiterato della parola “mamma” al posto di “madre” non sia casuale. È la scelta di mascherare un discorso estremamente logico con il mantello dell’emotività.
Ho trentasei anni e non credo che avrò figli biologici. Sono un’adulta responsabile da diverso tempo, ma non provo fascinazione verso il processo della gestazione: questo non mi impedisce di essere emotivamente coinvolta dalle gravidanze delle amiche di una vita.
Non sento – come a volte mi è stato suggerito – il ticchettare dell’orologio biologico: questo non mi impedisce di provare la più grande emozione di fronte alle bambine e ai bambini delle persone a me care.
Le parole di Antonio Tajani, però, non considerano nessuna di queste sfumature. Eppure, nel loro essere reazionarie, hanno in se qualcosa di estremamente razionale. «La famiglia senza figli non esiste perché si guarda al futuro», era l’affermazione completa.
I cittadini senza figli, dunque, non possono dare il loro contributo al futuro del paese, poiché l’unica cosa che interessa al paese non è la sua crescita nel senso evolutivo, bensì nel senso produttivo.
Il bambino archetipico, qui, non è messo al centro come portatore di nuove visioni e idee, ma come colonizzatore, occupatore di nuovo posto in un mondo già saturo e asfittico. Ed è proprio qui che, nelle parole di chi grida all’allarme denatalità, si consuma l’ingiustizia nei confronti del bambino stesso.
Quando sentiamo dire: «Cosa ne sarebbe delle casse dei nostri istituti pensionistici?» il messaggio decriptato è che non vogliamo una nuova generazione che ci mostri la via, vogliamo dei futuri adulti che ci paghino la pensione.
Quando sentiamo parlare di «un modello di società che rischia di degradarsi anche da un punto di vista economico se non si punta sulla natalità» il messaggio decriptato è che non desideriamo una nuova generazione che migliori un mondo devastato, vogliamo dei futuri adulti che portino avanti una società conformata e identica a se stessa, che ci spingano la carrozzina e ci assicurino che non moriremo da soli.
A prescindere dalle parole di Tajani, l’aspetto più demotivamente del discorso pubblico sulle nuove nascite è che verte sempre sulla maternità, anziché sulla genitorialità. Un discorso onesto, non viziato dalla convenzione e dall’interesse a mantenere lo status quo, in Italia non è ancora possibile perché ci troviamo di fronte a una classe dirigente estremamente squilibrata per genere, estrazione sociale, età anagrafica.
Sui grandissimi numeri le regole del gioco e del logos sono fatte da uomini di mezza e terza età, bianchi, eterosessuali, benestanti, padri di figli di cui qualcuno, a casa, si è occupato.
Nell’essere tutto questo, va detto, non c’è forse niente di male, se non la mancanza di rappresentazione dell’altro, l’impossibilità evidente di empatizzare, solidarizzare e desiderare un arco del diritto che non riguardi solo pochissimi eletti. L’impossibilità, soprattutto, di fare ciò che viene predicato: pensare al futuro.
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