- Il rifiuto di ogni trattativa prima della debellatio di Mosca poggia su un presupposto molto diffuso quanto erroneo.
- Cioè che se tacciono adesso le armi la Russia negozierà in condizione di vantaggio e non sarà disposta a nessun accordo diverso dal trattenersi il bottino fin qui conquistato.
- C’è poi una sotto-ipotesi e cioè che la sconfitta militare porti ad un cambio di regime, sperabilmente più aperto e dialogico all’interno come all’esterno.
Sabato scorso si svolte due manifestazioni sul conflitto tra Ucraina e Russia, una Milano e l’altra a Roma. Ma non erano due manifestazione per la pace. Solo quella di Roma lo era, mentre quella di Milano era per la guerra.
I manifestanti milanesi sostenevano con varie argomentazioni che era necessario aiutare militarmente l’Ucraina il più possibile e con ogni mezzo per portare alla vittoria questo paese e mettere in ginocchio l’aggressore.
Oppure, detto con termini meno rudi, per impedire alla Russia di nuocere ulteriormente nel sistema internazionale. Solo la resa incondizionata del novello Führer moscovita come vogliono polacchi e baltici nonché una parte della amministrazione americana, porterebbe alla fine del conflitto. Non prima.
Il rifiuto di ogni trattativa prima della debellatio di Mosca (che comunque una potenza nucleare con un passato imperiale farà di tutto per evitare…) poggia su un presupposto molto diffuso quanto erroneo, e cioè che se tacciono adesso le armi la Russia negozierà in condizione di vantaggio e non sarà disposta a nessun accordo diverso dal trattenersi il bottino fin qui conquistato.
Una previsione debole perché la restituzione dei territori occupati può essere controbilanciata da altri incentivi come il ritorno ad una graduale normalità delle relazioni tra Russia e Occidente. Mutatis mutandis, va ricordato che il ritiro delle truppe di occupazione sovietiche dall’Austria nel 1955 avvenne grazie ad un cambio di atmosfera nei rapporti tra le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale.
C’è poi una sotto-ipotesi che circola tra i fautori della guerra ad oltranza, anche se minoritaria e poco esplicitata. E cioè che la sconfitta militare porti ad un cambio di regime, sperabilmente più aperto e dialogico all’interno come all’esterno.
E’ stato così in molti contesti (Grecia 1974, Argentina 1982, Portogallo 1974 senza dimenticare il nostro 25 luglio 1943) ma non c’è garanzia che funzioni anche in questo caso.
L’impressione è che questa sotto-opzione non circolasse granché nella piazza di Milano e prevalesse piuttosto la linea baltico-polacca di arrivare a Mosca e trascinare Putin al tribunale dell’Aja.
Una prospettiva un po’ irrealistica ma del tutto legittima: però non la si può barattare come una iniziativa di pace. E’ piuttosto una mobilitazione a favore della guerra, affinché continui fino a che il nemico non ceda di schianto.
Ben diverso è il discorso di chi chiede di far tacere le armi, ora. Solo chi invoca peace now, manifesta per la pace. Mentre chi auspica la continuazione del conflitto si muove su un altro terreno. Non confondiamo i due piani.
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