- Il femminismo, a un certo punto, ci è sembrato anche questo: poter parlare allegramente di vestiti, reinventare look.
- Mi sembra assurdo che a distanza di trent’anni dal thatcherismo siamo ancora qui a domandarci se una donna al potere sia una buona cosa “a prescindere”. Da quand’è che l’a prescindere è diventato un principio politico valido?
- Il femonazionalismo non è femminismo. Il femminismo neocon non è femminismo, e nemmeno quello neo-liberista. Tutto qui. Trovategli un altro nome.
Non esiste un femminismo, ma tanti femminismi. La forza di questa idea può diventare il suo limite. Sottrarre il femminismo a una dimensione storica e politica ha i suoi rischi: su tutti, un qualunquismo che genera mistificazioni.
La quarta ondata, nella sua molteplicità, ci ha già abituato a essere strumentalizzata dall’attivismo performativo da social, t-shirt e ciabattine con la scritta “I Am a Feminist” o “We Should All Be Feminists”: una forma di posizionamento prêt-à-porter o di semplice vezzo.
Ci è sembrato tutto sommato innocuo, una specie di sostituzione della faccia del Che o della stella rossa su fondo verde, anche se in effetti non sono sicura che una Ferragni avrebbe indossato la faccia del Che sotto il blazer. Ma forse sì. Non era così importante.
Il femminismo, a un certo punto, ci è sembrato anche questo: poter parlare allegramente di vestiti, reinventare look, rovesciare codici in salsa postmoderna, mischiare tutto, perché era giusto rivendicare una frivolezza sbarazzina invece che lo studio o l’impegno, come se qualcuno – anzi come se il temuto Patriarcato – ci stesse impedendo di farlo.
Girl Power e ideologia
Già negli anni Novanta, il “Girl Power” si è mosso da queste premesse facendosi mainstream e rivelando molto presto non tanto la fragilità di pensiero, quanto l’essere a tutti gli effetti un sottoprodotto di quel Patriarcato. Non a caso è stata Geri Halliwell delle Spice Girls a offrire il suo candido tributo alla causa di Thatcher: «La prima Spice Girl, la pioniera della nostra ideologia».
Non entro nel merito di cosa fosse questa ideologia, ma mi sembra assurdo che a distanza di trent’anni dal thatcherismo siamo ancora qui a domandarci se una donna al potere sia una buona cosa “a prescindere”. Da quand’è che l’a prescindere è diventato un principio politico valido?
E soprattutto perché dovrebbe spettare solo a noi donne la responsabilità di questa riflessione? Comunque, se ci spetta, la metterei così: vogliamo piuttosto rinegoziare che cos’è il potere.
«Se sapete distinguere Margaret Thatcher da Ronald Reagan o Indira Gandhi dal generale Somoza in base ai loro discorsi, ditemi come fate», dice Ursula K. Le Guin in un discorso al Mills College nel 1993, un college privato femminile che potrebbe sfornare la futura classe dirigente.
«Il successo di qualcuna», ricorda, «equivale al fallimento di qualcun’altra. Il successo è il sogno americano che continuiamo a sognare perché, in quasi tutto il mondo, la maggior parte delle persone, compresi trenta milioni di noi, continuano a vivere ben svegli l’orribile realtà di essere poveri».
Io sono Giorgia e tu no
Meloni non ha studiato al Mills College, è venuta dal basso, dalla militanza attiva, rivendica il suo percorso e incarna simbolicamente la donna che si è fatta da sé, assumendo anche in questo caso una prerogativa spesso associata al maschile.
Il suo trionfo a queste elezioni, in parte, è dato dalla provenienza popolare, una street credibility in contrasto con l’aura classista e fumosa irradiata dai candidati e delle candidate del Pd.
La creazione del personaggio si è modellata anche grazie alla sua autobiografia di successo, Io sono Giorgia, dove nelle prime pagine Meloni è così scaltra da usare le armi dell’autoironia e citare subito il rovesciamento parodico della sua celebre autoproclamazione identitaria – “Io sono Giorgia. Sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana” diventato un tormentone pop grazie al remix di MEM & J.
Meloni ci scherza su. Ecco che il postmoderno le torna utile. Sa che l’indignazione la farebbe apparire snob, e deve scongiurarlo con tutta sé stessa perché fa parte della sua retorica.
Così come riesce nel totale ribaltone ideologico di sentirsi antagonista contro un minaccioso pensiero unico: «Non ho mai pensato ad esempio che fumare le canne fosse anticonformista», scrive. «Se le fumavano tutti, anticonformista era dire no. Per questo non lo facevo».
Peccato che l’utilizzo della marjuana sia ancora limitato da una cultura proibizionista e da leggi che lei stessa ha promosso; il suo audace anticonformismo no.
Lo stesso pensiero unico metterebbe «sotto attacco la famiglia, la patria o l’identità di genere e religiosa», si legge nell’introduzione della biografia, ed è un pensiero talmente pervasivo che sappiamo come sono andate a finire le discussioni sul Ddl Zan o sullo Ius soli.
Il consenso di cui gode Meloni in queste settimane sui media sembra dimenticare anche che Giorgia (omettere il cognome è funzionale all’operazione simpatia) non è la combattiva ragazza dei quartieri popolari che ce l’ha fatta, ma una politica di lungo corso, segretaria di un partito che amministra diverse regioni in Italia da anni (sono di questi giorni gli scioperi in Umbria contro i tagli alla sanità e il rischio di una “macelleria sociale”), già deputata e ministra di governi che dalla fine del secolo scorso hanno distrutto il welfare, lo stesso che in realtà ha consentito la sua parabola di emancipazione.
Il tetto di cemento
Nel suo discorso alla Camera, Meloni ringrazia invece per la sua scalata le donne che «con le assi del loro esempio» le hanno consentito di salire e «rompere il pesante tetto di cristallo».
Ai fini di un riconoscimento empatico, troviamo ancora una volta la rimozione dei cognomi. Creare un canone di donne “esemplari”, di eccellenze, è una narrazione che si sta insinuando all’interno della quarta ondata di femminismo: elimina scientificamente l’appartenenza politica ed esalta forme di eroismo e sacrificio a dispetto di una pratica condivisa di lotte
Poi, le eccellenze si possono condire a piacimento a seconda dell’uso, nel caso del discorso di Meloni diventano donne di Origine Garantita e Protetta, viene cancellata ogni prospettiva intersezionale, e il citatissimo “tetto di cristallo” non mostra mai il polo dialettico: per le donne migranti quel tetto è fatto di cemento.
Meloni reclama le origini cristiano-giudaiche dell’Italia e dell’Europa e un “sistema di valori fondato sulla libertà, l’uguaglianza e la democrazia”.
Sulla scia dei partiti europei di estrema destra, evoca da anni lo spettro di un’islamizzazione dell’Occidente, considera i profughi di guerra immigrati illegali. Una donna islamica in Italia, per Meloni, non dovrebbe proprio avercelo il tetto.
Qual è allora il costo di questa presunta uguaglianza? Le politiche su scuola, sanità, famiglia e migrazione di Meloni sono classiste. Discriminare è classista. Creare nuove forme di marginalità è classista.
L’idea stessa di partire dal basso per arrivare al successo è strumentale al classismo, co
me nella peggiore versione del sogno americano.
Non chiamatelo femminismo
Il punto non è agevolare il passaggio da una classe all’altra, ma ridurne la distanza. Esistono tanti femminismi, ma non esiste un femminismo autoritario, xenofobo, sovranista, smanioso di potere e reazionario.
Ecco, se il femminismo deve diventare una sovra-categoria talmente inclusiva da comprendere anche la sua fine – farsi prima post e poi completare il giro fino all’implosione – forse bisogna ripensare i termini. Potrebbe essere un punto di partenza.
Non si chiama femminismo. Il femonazionalismo non è femminismo. Il femminismo neocon non è femminismo, e nemmeno quello neo-liberista. Tutto qui. Trovategli un altro nome.
L’affermazione di Eugenia Roccella di essere una femminista benché non consideri l’aborto un diritto ha suscitato l’indignazione generica verso un ossimoro inaccettabile, ma sono state in poche a storicizzare e replicare dialetticamente alla malafede che vi si annidava sotto.
Nemmeno Laura Boldrini ha saputo risponderle sul suo terreno da gioco. Il femminismo della differenza metteva in discussione il potere pensato nei termini patriarcali, così come la questione dei diritti se concepita negli stessi termini: ovvero, come se fossero gli uomini a dover concedere questi diritti alle donne, invece di ripensare un nuovo tipo di patto sociale.
Il femminismo tende all’utopia (per quanto possa essere ambigua, tornando a Le Guin): squassa il presente per immaginare un futuro, non idealizza un passato arcaico, né tantomeno la tradizione.
Di fronte all’esternazioni di Roccella, e di fronte all’insistenza sul concetto di salvaguardia dell’identità di Meloni, mi rendo conto che la destra avrà gioco facile ad appropriarsi di pensatrici radicali e trasformarle in paladine reazionarie, se dall’altra parte la risposta teorica è nella brandizzazione del Femminismo® e non nella messa in crisi di un sistema di dominio.
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