Ricordo i licenziamenti delle donne appena entrate in gravidanza o appena sposate, con le scuse più strane, dopo una vita in fabbrica o negli uffici. Io le reintegravo tutte». Anno 1963. Giulia De Marco si presenta al concorso in magistratura e quel concorso lo vince. Pochi anni dopo, affronterà l’esame da aggiunto giudiziario col pancione di otto mesi (fra lo scandalo e l’irrisione di colleghi e professori).

Una provocazione vivente, come si disse all’epoca. Perché c’era una volta un paese chiamato Italia dove le donne che si sposavano o facevano figli perdevano il lavoro, costrette a firmare la “clausola di nubilato”. Una specie di lettera di licenziamento in bianco, vecchio retaggio del regime fascista.

Maltrattamenti, violenze, unioni infelici con donne condannate a esaurirsi in pesanti lavori domestici, a intristire e invecchiare fra la cucina e il bucato, a subire per anni insoddisfacenti rapporti sessuali (spesso ottenuti dai mariti con la forza). Il belpaese votato a Dio e alla famiglia (quella sacra, tradizionale, fondata sul matrimonio indissolubile, possibilmente benedetta con rito cattolico) riempiva le carceri di “adultere”; donne scandalose, impudiche, fin troppo spregiudicate nella ricerca della loro libertà, che si allontanavano da casa o cambiavano compagno, perché incostanti, di indole leggera. E in nome “dell’unità della famiglia”, ancora nel 1961 la Cassazione affermava senza un briciolo di pudore, che l’uomo era pur sempre il capofamiglia, e dunque poteva tradire, ma non essere tradito. Anzi, per il marito (o fidanzato) geloso, uccidere una donna non era reato, se in ballo c’era l’onore. L’uomo poteva picchiare la moglie per correggerne il carattere (vecchio e caro, e da qualcuno ancora rimpianto, ius corrigendi), violentare una ragazza e sfuggire alla pena con il matrimonio riparatore, pretendere che la moglie pagasse il “debito coniugale” assecondandolo in un sesso davvero amaro, ogni volta che la virilità reclamava il suo talamo.

E l’interruzione di gravidanza era ferocemente condannata (dalla società, non solo nelle aule di giustizia) come “reato contro la nazione”, presunto attentato alla purezza della razza. «Il matrimonio deve essere salvato anche se cornificato. Corna sì, divorzio no». Gastone Pascucci sbeffeggiava così i benpensanti moderati contrari al divorzio. Le donne, invece, ci scherzavano meno, specie quando scoprivano che la favola del primo amore, poteva trasformarsi nelle botte alla moglie. Il posto giusto per le donne era il lavoro domestico. E se per le menti più illuminate, fare la maestra o l’insegnante o l’assistente all’infanzia erano mansioni perfette (le donne, si sa, sono per natura più sensibili dei maschi), lavori da impiegata o segretaria erano ammessi purché, alla fine, vi fosse l’attesa di un matrimonio.

Trasmessa dalla Rai nel 1959, La donna che lavora, storica inchiesta di Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, mandava in onda un mondo di contadine, operaie, commesse, affannate ogni santo giorno fra lavoro, casa e figli, schiacciate dalla cura della famiglia e dai sensi di colpa. Un mondo di donne in cui era sempre l’uomo a decidere se la moglie poteva lavorare o no. Esseri fragili, senza volontà ne razionalità, da guidare come si fa con i bambini; vergini da celebrare e poi sottomettere (all’occorrenza anche in maniera violenta); demoniache seduttrici che nella loro intima natura nascondono la perversione, fino a diventare attrazioni peccaminose per buoni padri di famiglia, oppure chiuse a chiave nel matrimonio, quando si indossano i panni del mestiere di moglie. Si dirà che si tratta di questioni antiche. E certo chi può negare che le donne abbiamo oggi più libertà. L’importante è che non ne abbiano troppa, che imparino presto a guardarsi le spalle dai tanti “lupi” in circolazione, che si vestano come vogliono ma “in un certo modo” (tale da non indurre in tentazione l’autoglorificazione del maschio sempre in cerca di prede da sbranare). Se poi lavorano, va benissimo, chi mai potrà negarlo. Basta essere capaci di incastrare tutto.

«Fare un lavoro importante e dimostrare che si possono anche crescere figli, non dovrebbe essere una rivoluzione». Ha dichiarato di ritorno da un viaggio in Cina, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Ma anche oggi che la maternità è una scelta e non più una sacra missione, questo discorso suona un po’ troppo ottimistico. Del resto, l’obiettivo di arrivare a 500 nuovi nati ogni anno, entro il 2033, era già suonato a molte italiane un po’ troppo roseo, vista l’assenza di un lavoro stabile (per non dire sottopagato) che spesso consiglia alle donne di procreare di meno o di rimandare all’infinito la scelta di diventare madri. Non tutti i lavori sono compatibili con la maternità e sono quasi sempre i datori di lavori a mettere i bastoni fra le ruote alla carriera delle donne, impegnate a tirare su i figli. Forse uno spiraglio lo si vedrà quando non solo la presidente del Consiglio ma anche l’ultima delle sue collaboratrici o un membro della scorta, potrà portare con sé sua figlia in un viaggio di lavoro. Sarà questa la vera conquista per le donne, da chiamare diritto e non privilegio.

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