Tra Sudafrica dell’Anc e Israele non corre buon sangue a causa del sostegno dato all’apartheid. Israele si trova ad affrontare un mix di ideologia anticoloniale e cultura giuridica di tipo anglosassone. Ma nell’isolamento non c’è nessun vantaggio: occorre cacciare Netanyahu al più presto e cambiare rotta
L’Economist liquida il tema in una riga: «L’Anc ha sviluppato antipatia verso Israele durante gli anni dell’apartheid, quando lo stato ebraico fornì armi e tecnologia al Sudafrica sotto embargo». Tuttavia l’avversione tra i due paesi è molto più profonda di ciò che si può pensare. La collaborazione tra servizi o esercito israeliani e quelli del Sudafrica bianco e suprematista fu funzionale ed è durata decenni, almeno fino agli anni Novanta. Scambio di tecnologie e fornitura di armi, ma anche tanta formazione e training, così come collaborazione su molteplici dossier. Il vecchio Sudafrica dei boeri era una base importante per Israele sul continente, e le relazioni proseguirono durante il periodo delle sanzioni occidentali. D’altronde anche oggi Israele non applica le sanzioni contro la Russia che pur sostiene Hamas.
Nella storia israeliana tali posizioni contraddittorie vengono giustificate con il pragmatismo: per resistere ai molteplici nemici, il paese è costretto ad allearsi con tutti coloro che possono aiutare, senza andare troppo per il sottile. Ma per il governo sudafricano dell’African National Congress si tratta di una ferita mai rimarginata che provoca l’identificazione dei neri con il destino dei palestinesi. L’ideologia dell’Anc fa il resto: a Pretoria Israele viene definito come uno stato colonizzatore che reprime i diritti dei palestinesi e ruba loro la terra. Gaza e la West Bank sono considerate dai dirigenti sudafricani come i vecchi bantustan in cui i neri erano costretti a vivere ghettizzati, controllati e senza diritti. Si tratta di un’evidente forzatura che abbina due situazioni molto diverse, ma da non sottovalutare.
Danni reputazionali
Il Sudafrica attuale è una media potenza con un’influenza globale: fa parte dei Brics, conta in Africa e costituisce una voce influente del sud globale. Pretoria è inoltre dotata di una cultura politica e giuridica anglosassone che la rende assai temibile. Il Sudafrica rappresenta un mix sui generis. È simile all’occidente in tema di democrazia e diritti, come è provato dalle leggi molto avanzate in materia Lgbt+ e simili, uniche in Africa come in gran parte del sud del mondo. Allo stesso tempo, il Sudafrica incarna l’ideologia anticoloniale e antioccidentale che vede nel comportamento dei settlers israeliani una ripetizione di ciò che i paesi colonizzati hanno subito da parte delle potenze coloniali. Per questi motivi – come osserva Paolo Mieli sul Corriere della Sera – il Sudafrica ha accusato Israele non solo di «gravi violazioni del diritto umanitario» (che già costituirebbe di per sé un grave danno reputazionale), ma di essere dal 1948 una “potenza occupante”, compiendo “atti di genocidio” con tutti i risvolti simbolici che tali accuse possono costituire.
Mieli fa osservare quanto sia fallace tale impostazione giuridica basata su una ricostruzione storica parziale e ingannevole. Nondimeno la pericolosità del procedimento in corso davanti alla corte dell’Aja rimane, rappresentando un rischio reale per Israele, come già su queste pagine facevo notare a novembre scorso nei confronti della Corte penale internazionale (Cpi). Agli occhi dei giuristi internazionali, la presenza dei bulldozer dietro ai carri a Gaza è più significativa dei bombardamenti stessi: si tratta di una decisione politica atta a rendere invivibile l’area, e ciò rappresenta – sempre secondo la giustizia internazionale – un crimine di pulizia etnica, la parente più stretta del crimine di genocidio (dal che si arguisce perché viene utilizzato il termine “atti” di genocidio che tuttavia sarebbe giusto rivolgere al pogrom del 7 ottobre compiuto da Hamas). In altre parole, la Corte di giustizia dell’Aja potrebbe aprire la strada a ulteriori procedimenti della Corte penale internazionale, costringendo Israele a una defatigante quanto umiliante procedura di messa sotto accusa. I legali sudafricani sono formati alla scuola legale anglosassone, non sono dei novizi, e sanno come dare filo da torcere.
È ovvio che Israele non sarà censurato per genocidio: non ci sono gli elementi sufficienti per questo. Ma qualunque ammonizione uscirà dalla Corte (che non può condannare) diverrà un’etichetta pesante da portare, e potrebbe aprire la via ad altro. Già assistiamo al fatto che nelle università americane (per non parlare del resto del sud del mondo, in particolare musulmano) la Shoà non viene più considerata una giustificazione sufficiente per sostenere l’esistenza stessa dello stato di Israele.
Si tratta di un fatto gravissimo, prodotto dalla cultura “woke”, che va a intaccare la coscienza sorta nel secondo Dopoguerra: la guerra non risolve le contese, né produce giustizia, ma, al contrario, copre un gran numero di atrocità, fino ai genocidi. Ecco perché non può essere usata come arma di giustizia: fabbrica ingiustizie a catena. Da tali consapevolezze sono sorti l’idea di pace globale, l’istituzione delle Nazioni unite, il multilateralismo contemporaneo così come la stessa costruzione europea. Alla fine, da tale contesto è scaturita anche l’ultima generazione del diritto internazionale umanitario, che ha comportato la nascita della Cpi. Senza tutta questa architettura, si tornerebbe indietro al fragile ottocentesco “concerto delle potenze”, cioè all’equilibrio tra i più forti sempre sull’orlo del conflitto. E non basta dire che tale procedura non è sempre applicata: Israele è uno stato, e non un’organizzazione terroristica (come Hamas) con delle responsabilità particolari. Il processo onusiano in corso avrebbe senso se costringesse (o almeno sollecitasse) le parti a sedersi al tavolo per ricominciare a parlarsi allo scopo di trovare una soluzione condivisa.
Da tempo invece si nota come entrambe sono ostaggio dei rispettivi estremisti: l’ultradestra religiosa israeliana e Hamas, le quali paradossalmente hanno il medesimo programma, e cioè estromettere l’avversario da tutta la terra (“dal fiume al mare”, come dicono). La nascita dello Stato di Israele – è bene ricordarlo ancora una volta– fu votata all’Onu, e quindi è assolutamente legittima e inappellabile, anche se gli stati arabi votarono contro e non lo riconoscono ancora oggi. Accusare Israele di non applicare le risoluzioni Onu mentre si fa la stessa medesima cosa sin dall’inizio della contesa è un gioco a somma zero. Tale incomunicabilità è servita solo a polarizzare sempre di più le posizioni, fino agli estremismi degli ultimi anni.
Schermaglie senza fine
Tornare sui propri passi sarà doloroso sia per Israele che per i palestinesi, ma è l’unica strada percorribile. Cercare di risolvere la questione per via giuridica non servirà a molto, se non a esacerbare ancor più gli animi. Tuttavia gli israeliani devono stare attenti: imbarcarsi in un percorso senza fine di schermaglie giuridiche internazionali non può che far male, soprattutto – come è stato già dichiarato – se non si ha nessuna intenzione di tenerne conto. Il vittimismo israeliano (basato sull’Olocausto) non trova oggi quasi più eco nella comunità internazionale. Le intemerate dell’ambasciatore di Israele alle Nazioni unite (sulla scia dei ministri estremisti Ben Gvir e Smotrich) non possono che peggiorare la situazione: è l’Onu che sta alla base della nascita dello Stato, e non conviene attaccarla.
Allo stesso tempo, Israele non merita di essere “degradato” alla stregua di un paria internazionale, status da cui non lo difenderebbe nemmeno l’essere alleato dell’occidente. Non c’è sicurezza nell’isolamento internazionale. Occorre fare in fretta per mutare la rotta impressa dagli estremisti che hanno ficcato Israele in questo terribile cul de sac. Significa che urge al più presto cambiare governo e maggioranza. Vanno convinti immediatamente alcuni deputati del Likud (ne bastano 5 o 6) a far cadere l’attuale governo, cacciare Netanyahu (responsabile di molto di ciò che sta accadendo a Israele), avere un governo nuovo senza estremisti, negoziare seriamente il cessate il fuoco, non solo in cambio della liberazione degli ostaggi ma anche verso una ricostruzione di un quadro di sicurezza comune. È una strada difficile per un paese in cui l’opinione pubblica è da anni bombardata dal discorso xenofobo e isolazionista dei coloni. Ma va intrapresa subito.
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