Mercati e politica sono concentrati sulle prossime riunioni della Bce (14 settembre) e della Federal Reserve. Le aspettative incorporate nei prezzi di mercato lasciano prevedere un atteggiamento più «da falco» di Lagarde, con un aumento atteso di 13 punti base tra settembre e ottobre, e più da «colomba » di Powell (11 punti base). Il rallentamento dell’economia dell’Eurozona, non solo in Germania, con una crescita nulla nel secondo trimestre, rispetto alla resilienza di quella americana, fa ritenere invece il contrario. È comunque ormai assodato che la fase di aumento dei tassi è finita, o molto vicino a esserlo; e l’attenzione si sposterà da quanto sarà l’aumento, a quanto a lungo i tassi rimarranno elevati.
Decide Francoforte
C’è tuttavia un’altra decisione della BCE che assume un’importanza anche maggiore del livello dei tassi, ma che per ora è rimasta in un cono d’ombra: la politica degli acquisti dei titoli. Fu la Federal Reserve che, per affrontare la grande crisi del 2009, per prima adottò la politica non convenzionale di acquistare titoli direttamente sul mercato, meglio nota come quantitative easing (QE) che ha portato le attività della Fed a 3.200 miliardi alla vigilia della pandemia, per poi più che raddoppiare 8.500 miliardi nel maggio del 2022 (36 per cento del Pil americano) per far fronte all’emergenza del Covid. Da allora, in parallelo alla salita dei tassi, la Fed è stata venditrice netta di quasi 1.000 miliardi, un 12 per cento in meno rispetto ai massimi. La BCE si è mossa analogamente: incominciato il suo QE nel 2015 (con l’acronimo APP), ha portato lo stock di titoli a 2.600 miliardi alla vigilia del Covid, per poi toccare un massimo di quasi 5.000 miliardi nel giugno 2022 (con il programma PEPP): una quota del Pil, 37 per cento, quasi identica a quella americana.
Con l’inizio della fase di aumento dei tassi, la Bce ha terminato il programma App, ma continua a reinvestire cedole e titoli in scadenza del programma Pepp. Così, a differenza della Fed, la Bce ha ridotto i propri titoli di appena 150 miliardi (il 3 per cento). Nelle precedenti riunioni, la Bce aveva deciso di continuare a re-investire le cedole e i titoli in scadenza almeno fino a fine 2024, così da evitare di ridurre lo stock netto di titoli. Con l’aggiunta però che «i futuri reinvestimenti saranno gestiti in modo da evitare di interferire con l’orientamento della politica monetaria». E poiché l’orientamento è chiaramente restrittivo, e destinato a durare, la decisione su modalità e tempi della gestione dei titoli del Pepp sarà una decisione della massima importanza nel prossimo futuro, anche se oggi l’attenzione è tutta concentrata sui tassi.
Giro di vite
I tassi di interesse della Bce determinano il costo a cui le banche concedono prestiti a tasso variabile. Gli acquisti dei titoli hanno invece un impatto molto più pervasivo sulle condizioni generali di liquidità e sul prezzo dei titoli di stato, e quindi sull’intera struttura dei tassi, non solo quelli a breve (il prezzo di un titolo si muove in senso inverso rispetto al rendimento). La Bce ha già drenato 1.600 miliardi chiudendo i rubinetti dei finanziamenti a lungo termine alle banche, ma l’impatto sulla liquidità è stato limitato perché le banche hanno rimborsato quei prestiti utilizzando prevalentemente l’eccesso di riserve che già detenevano presso di lei. Una riduzione del portafoglio titoli avrebbe invece un impatto immediato e diretto: qualcuno li dovrebbe comperare, infatti.
La maggiore offerta, che si aggiungerebbe a quella dei governi per finanziare deficit e titoli in scadenza, avrebbe un impatto sul prezzo, e quindi sui tassi, anche dei titoli di stato a lungo termine. E questo per il nostro Governo, già alle prese con un deficit in crescita, sarebbe un problema ben più grave di un ulteriore aumento dei tassi a breve, o della riforma del Patto di stabilità, visto che il debito pubblico emesso è prevalentemente a lungo termine, e vista la carenza di domanda, se si escludono i risparmiatori: tra banche, altri intermediari finanziari e stranieri, infatti, nei dodici mesi al maggio scorso (ultimo dato disponibile) hanno venduto 54 miliardi di titoli pubblici, a fronte dei 100 acquistati dai cittadini. Così il Tesoro deve sperare che i cittadini corrano a sottoscrivere il Btp Valore: avanti di questo passo e presto sarà come tornare all’ ”oro alla patria” del 1935.
Rischi futuri
E’ vero che la Bce può attivare il programma Tpi per «evitare frammentazioni» nel mercato, ma questo programma dovrebbe usare il reinvestimento dei titoli del Pepp: quindi nulla si sa cosa succederebbe se si decidesse di ridurre i reinvestimenti; e se queste risorse fossero insufficienti a contrastare la «frammentazione». Né quali sono modalità e criteri per attivare il Tpi. E, soprattutto, quali le condizionalità. Dalla prossima riunione della Bce, meglio spostare l’attenzione dai tassi ai titoli.
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