- Nello strano dibattito italiano il provincialismo a volte produce risultati assurdi: da mesi si parla di propaganda putiniana e di infowar, senza avere la più pallida idea di come funzionino questi meccanismi.
- L’infowar russa non passa per l’arruolamento di opinionisti stranieri, ma per l’uso della tecnologia per aumentare la visibilità e dunque l’influenza di chi è funzionale alle esigenze del Cremlino.
- Gli opinionisti utili a Mosca, insomma, possono anche essere usati dal Cremlino a loro insaputa e trovarsi beneficiari inconsapevoli di una popolarità costruita in vitro. Su Twitter si vedono alcune dinamiche compatibili con questo schema, per esempio articoli di Manlio Dinucci o Alessandro Orsini.
Nello strano dibattito italiano il provincialismo a volte produce risultati assurdi: da mesi si parla di propaganda putiniana e di infowar, senza avere la più pallida idea di come funzionino questi meccanismi. Col risultato di amplificare l’esito di ogni, possibile e probabile, intento manipolatorio del Cremlino. Da giorni c’è polemica per un articolo del Corriere della Sera, peraltro piuttosto confuso, sulla lista dei “putiniani d’Italia”, al centro di un dossier del Copasir, il comitato parlamentare che vigila sui servizi segreti.
L’indignazione generale si è rivolta al fatto che il Corriere affiancasse l’articolo con una serie di foto dei personaggi al centro di questa “Rete che fa partire la controinformazione”. Subito è scattata la solidarietà contro queste vittime dei dossieraggi e persecuzione, che prontamente hanno potuto esprimere le loro opinioni da tutte le televisioni nei programmi di massimo ascolto, o in prima pagina sui giornali amici, come fanno peraltro da tre mesi. Una singolare idea di censura quella che a molti – il sociologo Alessandro Orsini su tutti – ha portato una visibilità mai sperimentata prima.
Se invece che guardare le figure – in questo caso le foto – i tanti che si indignano si fossero anche informati (leggere l’articolo poteva anche aiutare, per quanto poco dettagliato) avrebbero capito che questa polemica si fonda su un equivoco. Il tema non è se i personaggi citati – da Orsini al “geografo” Manlio Dinucci a una certa Laura Ruggeri – siano agli ordini del Cremlino, ma se siano funzionali alla sua strategia di comunicazione.
Che gente come Orsini o Dinucci dica e scriva cose in perfetta coerenza con la propaganda di Mosca (e dunque false) è più un fatto che un’opinione. Orsini inventa sanzioni inesistenti in Yemen, Dinucci attribuisce alle sanzioni contro la Russia il rincaro del prezzo del gas iniziato un anno prima, e così via.
E’ assai probabile che queste raffinate analisi le pensino da soli, non c’è alcun elemento per pensare che siano assoldati da qualche organizzazione russa, cioè che recitino un copione, anche se il ricorso alle stesse parole d’ordine della propaganda di Sputnik o Russia Today potrebbe farlo pensare. Ma il punto non è questo.
Come dimostrano anni di indagini americane sull’interferenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016 e del 2020, l’infowar russa non passa per l’arruolamento di opinionisti stranieri, ma per l’uso della tecnologia per aumentare la visibilità e dunque l’influenza di chi è funzionale alle esigenze del Cremlino.
Una delle tecniche più semplici che gli apparati digitali dei servizi russi possono usare per operazioni di infowar è quella di usare dei bot, cioè account fasulli dietro i quali non ci sono esseri umani, per amplificare i messaggi graditi.
Gli algoritmi delle piattaforme fanno il resto, perché percepiscono un contenuto come di crescente rilevanza, un argomento di cui si discute, e ne aumentano la visibilità. Se poi c’è anche qualche account vero (e verificato dalla piattaforma) che rilancia, l’impatto è ancora maggiore, perché la presenza di soggetti che il social identifica come credibili rafforza la convinzione dell’algoritmo che la conversazione è rilevante.
Così – e con mezzi più mirati come il microtargeting degli annunci personalizzati – i russi hanno alimentato fenomeni comunque esistenti, ma più di nicchia, come le teorie della cospirazione sulle frodi elettorali del 2016 e del 2020. Oppure la propaganda anti-islamica, quando era un argomento molto sensibile nella politica americana.
Gli opinionisti utili a Mosca, insomma, possono anche essere usati dal Cremlino a loro insaputa e trovarsi beneficiari inconsapevoli di una popolarità costruita in vitro. Su Twitter si vedono alcune dinamiche compatibili con questo schema, per esempio articoli di Manlio Dinucci o Alessandro Orsini rilanciati da account con pochi follower che rimbalzano lo stesso contenuto dall’uno all’altro, spesso con gli stessi commenti.
Mustapha Ida condivide la versione francese di un pezzo di Dinucci che viene rilanciata con commento in cinese da Oken (24 follower) mentre altri account fanno girare versioni in spagnolo e in francese. Magari Dinucci ha una popolarità planetaria di cui in Italia non siamo pienamente consapevoli, oppure quelli sono bot, cioè account finti mossi da un algoritmo.
Nel maccartismo (o anche nel berlusconismo) gli opinionisti sgraditi al potere non avevano accesso alla televisione, faticavano a trovare editori, avevano carriere rovinate. Qui i sospetti “putiniani” sfornano best seller, sono contesi dalle tv, riempiono teatri e hanno una immensa popolarità social, vera o artificiale che sia.
E’ una ben strana forma di censura, ma di sicuro il risultato, e il dibattito connesso, sono graditi al Cremlino e a Putin.
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