- Il generale Colin Powell, morto questa settimana all’età di 84 anni, lascia in eredità all’America e al mondo molte cose: la più importante è la cosiddetta “dottrina Powell”
- Per Powell si dovevano ponderare con cura tutti i possibili effetti di un intervento, inserendo nell’equazione anche incognite solo potenziali.
- È sterile ripetere che le guerre in Afghanistan e Iraq non hanno passato lo stringente test della dottrina Powell.
Il generale Colin Powell, morto questa settimana all’età di 84 anni, lascia in eredità all’America e al mondo molte cose: la più importante è la cosiddetta “dottrina Powell”. Innanzitutto, va chiarito che la dottrina Powell è tecnicamente non esiste: è una rielaborazione powelliana della “dottrina Weinberger”, dal nome del segretario della Difesa che l’ha formulata nel 1984. Caspar Weinberger è stato il più influente dei maestri di Powell, che è stato il suo assistente militare durante gli anni di Ronald Reagan, periodo cruciale dal punto di vista dell’elaborazione di una politica estera ispirata al “restraint”, la prudenza, figlia del trauma del Vietnam. Il modello di riferimento della dottrina Weinberger è l’invasione di Grenada del 1983. L’operazione è durata quattro giorni, ha impedito la formazione di un regime rivoluzionario ed è risultata nella proclamazione di un governo di transizione. L’anno dopo si sono svolte regolari elezioni. Da questa operazione Weinberger aveva dedotto sei criteri fondamentali per stabilire se intentare o meno un’iniziativa militare. Gli Stati Uniti dovevano muovere guerra soltanto in presenza di alcune condizioni stringenti: l’interesse vitale del paese è minacciato, c’è una ragionevole certezza di vittoria, gli obiettivi politici e militari sono definiti chiaramente, il rapporto fra le forze utilizzate e gli obiettivi è congruo, l’opinione pubblica e il Congresso sostengono l’iniziativa e il ricorso alle truppe è l’ultima opzione possibile. Se una di queste condizioni non è soddisfatta, diceva Weinberger, la via militare non è praticabile e porta al fallimento. Powell non ha mai teorizzato nulla di diverso, ma ha aggiunto alcune specificazioni che hanno reso la sua filosofia meritevole di un nome a parte. Le aggiunte sono sostanzialmente tre. La prima riguarda la valutazione delle conseguenze di un’azione. Per Powell si dovevano ponderare con cura tutti i possibili effetti di un intervento, inserendo nell’equazione anche incognite solo potenziali. La seconda specificazione riguarda la exit strategy: deve esistere dall’inizio un piano di ritiro realistico per evitare di finire insabbiati in guerre senza fine. La terza è il sostegno internazionale, aspetto a cui Weinberger dava meno peso. Le correzioni di Powell vanno nel senso della pianificazione e del multilateralismo. È sterile ripetere che le guerre in Afghanistan e Iraq non hanno passato lo stringente test della dottrina Powell. Quello che è più interessante notare è l’analogia fra la sindrome del Vietnam e quella che qualcuno chiama la “sindrome dell’Iraqistan” nel suggerire prudenza nel ricorso alla forza militare, questione dirimente nell’epoca del tramonto dell’internazionalismo liberal. È un cambio di paradigma in cui Donald Trump e Joe Biden, pianeti lontani, sono allineati.
© Riproduzione riservata