Mi scrive un’amica, insegnante di liceo, che qualche giorno fa, recandosi al supermercato si sente apostrofare da una voce femminile che dice, rivolta alla figlia: «Claudia (nome di fantasia), hai visto? C’è quella stronza della tua professoressa». La signora continua, lanciando maledizioni nei suoi confronti, per il male che avrebbe fatto alla figlia, dandole alcuni voti negativi e snocciolando tutti i trenta e lode che ora, invece, la ragazza si vede riconoscere all’università, come dire che molti insegnanti delle scuole italiane non sanno valutare il percorso formativo delle loro studentesse e studenti. Infine, la chiusa tragica, direi apocalittica: «E comunque, il male che ha fatto, prima o poi nella vita lo pagherà tutto!».

Questo episodio accade più o meno negli stessi giorni in cui tre studentesse di un liceo veneziano decidono di fare scena muta all’orale di maturità, in quanto hanno ritenuto ingiusta la valutazione della loro prova scritta di traduzione.

Cosa lega questi due fatti? Il collocarsi in un filone sempre più crescente di delegittimazione della scuola, degli insegnanti per poi estendersi alla classe intellettuale in genere, alla cultura. Un processo iniziato con la prima retorica leghista, caratterizzata da un forte antintellettualismo, infarcita di elementi ostentatamente popolani, ma in realtà populisti, che da antivalori vengono trasformati in valori. L’esaltazione del “fare” contrapposto al pensare, al riflettere risuona ancora oggi nel pensiero leghista.

Anche il verbo renziano, che evocava in tono sarcastico «i professoroni», per ridicolizzarne l’autorevolezza, ridurli a figure fuori dal mondo, che complicano sempre la realtà, che viene, invece ridotta a slogan buoni per i talk show televisivi o per i comizi elettorali, ha contribuito alla delegittimazione degli intellettuali. L’«uno vale uno» dei Cinque stelle ha gettato altra benzina sul fuoco, annullando ogni distinzione fondata sulla preparazione, sul sapere specifico che nascono dallo studio. Tutti possono fare qualunque cosa. Il problema che questo atteggiamento populista non esprime, come potrebbe apparire, una vera eguaglianza sociale, ma solo un opportunismo contingente.

A poco a poco è venuta meno anche la concezione che chi governa dovesse essere più capace del semplice cittadino (altrimenti non si capirebbe perché siede in Parlamento). Nel 1948 il 91% dei parlamentari erano laureati, oggi siamo al 70,3%. Non che una laurea significhi avere maggiori capacità politiche, per carità, ma in un mondo sempre più globalizzato e complesso, avere alcune competenze specifiche in qualche ambito forse serve ancora a qualcosa.

Un esempio fra tanti: l’Italia è il Paese dell’Ue che spende di più in traduzioni, poiché molti dei nostri europarlamentari non conoscono né l’inglese né il francese.

Abbiamo visto come nel periodo della pandemia l’opinione di scienziati e studiosi venisse spesso messa in discussione se non irrisa, senza alcun bisogno di confutarla con tesi alternative. Questa progressiva delegittimazione è entrata pesantemente nel mondo scolastico. Episodi come quello raccontatomi dall’amica non sono una eccezione: quante volte abbiamo letto di genitori che minacciano gli insegnanti, quando non sono gli studenti stessi ad aggredire i loro professori.

Un brutto voto viene visto come un’ingiustizia a prescindere. Nessuno nega che ci possano essere pregiudizi anche tra gli insegnanti, ma in che misura? Se però pensiamo che anni di studio, di formazione continua non diano un minimo di capacità di giudizio allora l’intero sistema scolastico perde di senso.

L’intero discorso ci porta a un’ulteriore riflessione: l’abolizione delle difficoltà. Tutto deve essere semplice e ciò che ostacola questa semplificazione va abolito. L’apprendimento, invece, è lavoro, fatica, comporta anche qualche sconfitta, che deve spronare a migliorare.

Invece, suonano profetiche le parole di Italo Calvino in Lezioni americane: «Sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze».

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