Quando Enrico Letta ha proposto di estendere il voto ai sedicenni, molti hanno espresso forti dubbi, sottolineando l’immaturità, la dipendenza dai social di molti giovani, o hanno riferito che gli stessi ragazzi, interrogati in aula, si sono dichiarati impreparati, poco interessati. Va da sé – che banalità! – che ci sono ragazzi spaventosamente immaturi e superficiali, molto più di ieri, ed altri di eccezionale maturità, molto più di ieri. Altrettanto ovvio è che sono più i primi dei secondi. Se si cerca in dati del genere il motivo per approvare o respingere la proposta non si va lontano. Del resto, siffatti giudizi hanno sempre accompagnato i dibattiti sul diritto elettorale. Concederlo ai poveracci? ci si chiedeva un tempo. Ma che ne sanno loro? Agli analfabeti? se uno non sa leggere come puo’ farsi un’opinione? Concederlo alle donne? Ma quando mai, le donne ragionano – quando ragionano - attraverso i mariti, o il prete.   

Ma così come ci sono stati buoni motivi per ammettere al suffragio poveri, analfabeti e donne, molti ce ne sono per riflettere sulla rappresentanza dei minori. Purché si sappia di cosa si sta parlando. E’ un punto chiave della natura della rappresentanza. Governi e parlamenti prendono decisioni che vanno oltre la durata dei loro mandati e impegnano le generazioni future. Lo si ripete tutti i giorni a proposito del debito pubblico. Ma particolarmente in società gerontocratiche, come l’Italia o il Giappone, per quanto saggi e previdenti, elettori ed eletti sono meno portati a occuparsi del futuro. Dar voce alle classi di età più giovanili sarebbe dunque necessario. Ma in che modo? 

Al Bundestag tedesco nel 2003 una mozione presentata da 47 deputati e appoggiata dal presidente della Camera, dall’allora ministra della famiglia e dall’ex presidente della repubblica Roman Herzog chiedeva che una modifica della costituzione applicasse un suffragio universale comprendente ogni cittadino, dunque fin dalla nascita. In quel caso fino alla maggiore età il voto sarebbe stato esercitato dai genitori. Anche in Austria si fa campagna per il Kinderwahlrecht, respinto in Germania nel 2003 e di nuovo nel 2008. Altrove si parla di “sistema Demeny” con riferimento ad una proposta simile avanzata nel 1986 dal demografo Paul Demeny per la quale fino alla maggiore età ogni genitore, o tutore legale, avrebbe un mezzo voto aggiuntivo per ogni figlio.

il voto solo ai genitori?

I sostenitori di siffatte proposte dichiarano di applicare alla lettera il dettato “una testa un voto”. In realtà è tutto l’opposto. Dare il voto ai genitori per i figli ha infatti una forte inclinazione “familistica” e si riallaccia alle molte idee di voto plurimo discusse fin dall’Ottocento, che in vario modo potenziano ruolo dei capifamiglia, e dunque della famiglia, così correggendo il fondamento individualistico del suffragio, come già prevedeva un progetto di costituzione elaborato nel 1848 dal beato Antonio Rosmini.

Rispetto a queste proposte, quella di abbassare l’età del voto a sedici anni, come già avviene per l’elezione dei parlamenti scozzese e gallese, ha invece un sapore di emancipazione. Ma è tale solo se è strettamente legata a convinti processi di formazione civica.

Non sembra sia il caso della proposta di Letta, che pare espressione piuttosto di una concezione tutta “votocentrica” della democrazia, quella che immagina che i cittadini abbiano un patrimonio di preferenze definito prima di ogni processo politico, e su questa base si possa variamente concedere o non concedere loro il voto.

Alla radice di questo atteggiamento, il quale dimentica che sempre nella storia soltanto processi educativi possono trasformare i cittadini in elettori, è il fatto che fino a ieri quei processi li hanno guidati i partiti con le loro sezioni giovanili, o con l’indottrinamento precoce nei regimi di massa – si pensi ai pionieri comunisti, o ai Balilla fascisti.

Evaporatisi i partiti, oggi agiscono alcune forme democratiche giovanili, a cominciare dagli stessi organi di rappresentanza scolastica, abbandonati alla spontanea invenzione di una democrazia, ereditata dai movimenti, mentre nelle aule balbetta smarrito l’insegnamento dell’«educazione civica».

La frattura di Greta

Quasi a simbolo di questa frattura con le istituzioni si può indicare il caso di Greta Thumberg, popolarissima leader ecologista, che ha smesso di andare a scuola. In Italia non sono molti i comuni che sulla base di una legge del 1997, recependo il dettato della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, votata dall’Onu nel 1989 (che proclama ogni sorta di possibile diritto, compresi quelli di opinione, di pensiero e di associazione) hanno costituito «consigli comunali dei ragazzi», eletti dalle ultime due classi delle elementari e dalle prime due classi delle medie inferiori, i cui sindaci e consigli affiancano i consigli comunali con specifiche funzioni.

Anche se meno presente che non in altri paesi, anche in Italia agisce poi il «Model United Nations», in cui studenti, in genere universitari, ma anche liceali, organizzano fittizie sessioni dell’ONU nelle quali si familiarizzano con procedure e strategie politiche.

Il nesso tra queste sporadiche iniziative – che di per sé sarebbero consone alla tradizione civica del paese - e il sistema politico italiano è però assai labile. In paesi di più radicata tradizione democratica vi sono organizzazioni che aiutano scuole e famiglie nell’educazione civica dei ragazzi. E’ dimostrato che hanno anche l’effetto di ridurre l’astensionismo degli adulti.

Negli Stati Uniti, dove è appena stato presentato un disegno di legge che introduce la preiscrizione dei sedicenni nelle liste elettorali, dal 1998 opera  “Kids voting USA”, che organizza elezioni parallele a quelle ufficiali, in rete o nelle scuole, in biblioteche e associazioni giovanili. Nelle elezioni presidenziali del 2020 i ragazzi  hanno votato in 27 stati. Per la cronaca: anche lì ha vinto Joe Biden.

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