Nominato dal governo Draghi alla guida di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), Dario Scannapieco presto presenterà il suo piano industriale. Vista la provenienza, vicepresidente della Banca Europea degli Investimenti (Bei), è ragionevole ipotizzare che il governo vorrebbe orientare la gestione di Cdp nella direzione di una banca di sviluppo (Bds) sul modello della Bei, o quello similare della Banca Mondiale. Che cosa sia esattamente una Bds è difficile dire perché ognuna ha avuto una genesi e opera entro un quadro giuridico e istituzionale molto differente.

La stessa Cdp, fondata dal Regno di Sardegna nel 1850, è stata trasformata in società per azioni soltanto nel 2003, e diventata Istituzione finanziaria e monetaria nel 2006. Se il modello fosse la Bei, una Bds dovrebbe finanziare, o co-finanziare, soltanto progetti di investimento che, pur avendo un valore attuale scontato positivo, non riescono a raccogliere i capitali necessari sul mercato.

A sua volta la Bds si finanzia emettendo obbligazioni proprie con un elevato merito creditizio in quanto garantite da un patrimonio ingente fornito dallo Stato (o gli Stati) fondatore.

Se però guardiamo alla sua struttura di bilancio (l’unico criterio oggettivo), per rischiosità degli attivi, tipologia degli investimenti, e complessità degli strumenti finanziari, Cdp S.p.a. assomiglia più a una banca di investimento.

A conferma, le dichiarazioni del precedente amministratore delegato nel bilancio 2020: «Nell’ultimo biennio, Cdp ha rivoluzionato il proprio ruolo, trasformandosi (a) da finanziatore a partner delle imprese, (b) da finanziatore a promotore dello sviluppo … (c) da azionista a gestore di partecipazioni».

Una banca di investimento molto anomala visto che Cdp finanzia la propria attività prevalentemente con soldi garantiti dallo Stato, pur essendo sotto-capitalizzata visto che opera  con una leva complessiva, e quindi una rischiosità, di 16 volte (totale attività diviso patrimonio) molto superiore alla media di 11,6 delle principali banche americane (Goldman Sachs, Morgan Stanley, Citi e JPMorgan); e più del doppio della leva della Bei (7,5 senza contare il capitale sottoscritto ma non versato). Non voglio mettere in dubbio la professionalità e l’onestà di intenti dei precedenti vertici o del management, nè criticare i risultati della gestione passata; e ritengo fuori luogo i paragoni con l’Iri. Il punto è un altro: per quanto si possa volere che Cdp sia una Bds, semplicemente non lo è. Basta guardare alla struttura del suo bilancio.

La logica degli investimenti

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Il primo problema è il peso e la mancanza di logica degli investimenti azionari. Alcuni, come Eni, sono un retaggio del conferimento di capitale da parte dello Stato, che non aveva risorse liquide, al momento della trasformazione in S.p.a. Altre, come Sace, entrano ed escono a seconda degli interessi del governo di turno. Alcune come Fintecna, sono un lascito delle liquidazioni delle partecipazioni dell’Iri. Fincantieri, che fa profitti nel militare, sta in Cdp; Leonardo, a controllo pubblico e pure nel militare, fuori.

A volte Cdp serve solo a permettere il controllo pubblico con il minimo dei capitali come nel caso di Terna e Snam, quotate, controllate dal Mef con l’83 per cento di Cdp, che ha il 59 di Cdp Reti, a sua volta con il 30 delle due società. Quando lo faceva Mediobanca e i privati si gridava allo scandalo delle scatole cinesi; se lo fa Stato è strategico per lo sviluppo.

Tramite Cdp, lo Stato azionista finisce per essere in contrasto con lo Stato che promuove la concorrenza e regola i monopoli. Come nel caso della filiera di società integrate verticalmente nel gas di cui Cdp è azionista di controllo: Saipem, Eni, Snam e Italgas. O come la partecipazione in Tim e in Open Fiber, che per molti era propedeutica alla creazione della rete unica in fibra a controllo pubblico, modello Terna, ma che invece questo governo avversa. Senza contare Autostrade dove lo Stato regolatore si troverà nella posizione di dover imporre più rigidi controlli e regole, che non coincidono con i suoi interessi di azionista.

Il bilancio di Cdp elenca ben 307 società controllate, anche congiuntamente, direttamente o indirettamente. A queste va aggiunto l’investimento in circa 46 fondi di private equity di ogni tipo, gestite da Sgr di alcune delle quali Cdp è anche azionista, spesso di minoranza. Mi sfugge la logica.

Nè comprendo perché lo Stato, tramite Cdp, debba pagare laute commissioni a privati per gestire dei fondi, in un paese che ha un enorme stock di risparmio e in un momento storico di boom del private equity nel mondo.

Smantellare il portafoglio

Se veramente il governo e Scannapieco volessero trasformare Cdp in una Bds sul modello Bei dovrebbero dunque cominciare a smantellare il portafoglio di partecipazioni e chiudere i rubinetti ai fondi, usando il ricavato, non per far cassa, pagare dividendi, ridurre il debito pubblico o trasferire rendite ai privati, come nella stagione delle privatizzazioni, ma per dotare Cdp di un patrimonio ingente e liquido indispensabile perchè possa agire come una vera Bds che raccoglie autonomamente capitali sul mercato e fare da volano per gli investimenti privati.

Le partecipazioni azionarie dovrebbero limitarsi a favorire aggregazioni e ristrutturazioni in settori con chiare prospettive, come nei casi di WeBuild o Sia-Nexi. Ma limitate nel tempo, ovvero Cdp dovrebbe uscire una volta completata l’operazione, evitando di immobilizzare il capitale e perpetuare il controllo.

So bene che parlare di dismissioni è fantascienza: la presenza dello Stato nel capitale delle aziende è forse l’unica cosa che accomuna i partiti, da Fratelli d’Italia a Leu: toglietemi tutto, ma non le nomine. 

Sarebbe ora di sfatare il mito che lo Stato azionista è essenziale per difendere le attività “strategiche” del Paese: il governo americano non possiede una singola azione della sua industria militare e tecnologica; né quello francese di Carrefour, pur avendone bloccato l’acquisizione poiché ha dichiarato “strategica” perfino la distribuzione alimentare. Per questo c’è il golden power.

Da dove arrivano i fondi

L’altro ostacolo perchè Cdp possa trasformarsi in Bds sono le fonti di finanziamento. A fine anno appena 21 dei 379 miliardi della raccolta erano obbligazioni proprie. La parte del leone (73 per cento) spettava ai libretti e buoni postali, che da un punto di vista finanziario sono però sostanzialmente una partita di giro per Cdp: 227 dei 275 miliardi di raccolta postale, che è garantita dallo Stato, sono infatti girati da Cdp al Mef come versamento sul conto di Tesoreria o come acquisto di titoli di stato.

Di fatto il risparmio postale è debito pubblico, anche se non lo è per le statistiche ufficiali: Cdp fu trasformata in S.p.a. proprio allo scopo di deconsolidarlo.

Un peccato originale che, assieme al dogma dello Stato nelle imprese, rende poco credibile ogni intento di trasformare Cdp in una vera banca di sviluppo sul modello della Bei, a prescindere dalla volontà del Governo o dalle capacità del suo nuovo vertice. Anche perchè nella seconda repubblica i governi sono durati in media 618 giorni.

Ognuno ha nominato il suo vertice in Cdp che occupa il primo anno del mandato a stilare il Piano, il secondo a gestire, e il terzo a cercare di farsi rieleggere. Al confronto, il breve termine che ossessiona i manager delle public company sembra un’eternità.

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