«Il patriarcato è finito», ha annunciato il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, intervenendo in video durante la presentazione alla Camera dei deputati della fondazione intitolata a Giulia Cecchettin. E poiché questa parola è da consegnare al passato, ha continuato, parlare di femminicidio come manifestazione del potere patriarcale è una «visione ideologica».

A questa andrebbe sostituita una comprensione diversa delle cause del fenomeno, tra cui rilevano, in particolare, le «forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti dall’immigrazione illegale».

Non poteva essere espressa in modo più chiaro, in pochi minuti di video-messaggio, la narrazione che la destra di governo fa propria e intende imporre nel discorso pubblico in tema di violenza di genere. Quella, cioè, di un fenomeno legato all’insicurezza sociale e associato a culture “non occidentali”, non raggiunte dai progressi nella parità giuridica tra donne e uomini che, da questa parte del mondo, segnalano il definitivo tramonto dell’oppressione femminile. Il ruolo dell’«immigrazione illegale di massa» è stata rimarcato, del resto, anche da Giorgia Meloni in conferenza stampa a Rio de Janeiro.

Le parole d’ordine

Le parole di Valditara sono suonate particolarmente fuori luogo, nella commemorazione di un femminicidio perpetrato da un ragazzo italiano e della buona borghesia “nativa”. Ma la verità è che il ministro ha colto quella che deve essergli apparsa come un’occasione d’oro per far passare, sotto la veste di un messaggio istituzionale, le parole d’ordine della destra radicale ed estrema sul caso in questione. Nel discorso complottista che circola sui social network, l’enfasi di parte progressista e femminista sulla morte di Giulia Cecchettin sarebbe motivata dalla possibilità di colpire un giovane “bianco”, per rimuovere la responsabilità della componente migrante della popolazione.

Ecco dunque arrivare il ministro a ristabilire i fatti contro le ideologie. Provando a celare il carattere di quella che, a tutti gli effetti, è una visione ideologica, sebbene di segno diverso e opposto. Perché questo sono le ideologie: insiemi di idee, valori, opinioni, che orientano l’agire pubblico. E scegliere di evidenziare la componente straniera come determinante significa inquadrare il problema della violenza di genere nella visione nativista e identitaria tipica della destra, per strumentalizzare il relativo allarme sociale e proporne la soluzione attraverso il contrasto all’«immigrazione illegale».

A questo obiettivo serve anche l’attacco alla visione concorrente: quella che attribuisce invece l’origine della violenza alla persistenza di un potere di matrice patriarcale. A partire in particolare dall’omicidio Cecchettin, la parola “patriarcato” ha conosciuto una rinnovata fortuna nel dibattito pubblico, dopo decenni in cui era largamente caduta in disuso fuori dai circoli femministi. Ma proprio la sua ricorrenza ha provocato, come effetto, il moltiplicarsi dei tentativi di distorcerne il significato, o negarne la validità.

Il fraintendimento

La critica essenziale a questo concetto – che ispira anche il discorso di Valditara – è che non possa chiamarsi patriarcato un regime di formale uguaglianza, dove le donne hanno conquistato parità di diritti e quote di potere sociale, dove addirittura una donna siede alla presidenza del Consiglio dei ministri.

Questo però significa fraintendere – più o meno consapevolmente – ciò che il femminismo ha inteso parlando di patriarcato: un millenario ordine materiale e simbolico fondato sul dominio degli uomini e l’oppressione delle donne. Un ordine che dà forma alla divisione e organizzazione del lavoro produttivo e riproduttivo, determina la distribuzione diseguale delle risorse, condiziona i ruoli che sono attribuiti a donne e uomini, e inoltre modella il linguaggio, l’immaginario, le rappresentazioni.

Pensare che questa struttura possa essere sradicata in un paio di generazioni per il solo effetto dell’innovazione giuridica è illusorio. Il cambiamento richiede impegno costante sul tempo lungo. Mentre negarne la persistenza, solo perché la superficie della rappresentazione pubblica restituisce una maggiore parità tra i generi, rappresenta un’ottima giustificazione per non agire.

Quasi trent’anni fa, nel 1996, dopo la Conferenza Onu sulle donne di Pechino, la Libreria delle donne di Milano parlò di «fine del patriarcato». Ma intendeva ben altra cosa rispetto alla vulgata della destra. Non era il dominio ad essere finito, ma la disponibilità femminile ad accettarne le regole. E siamo ancora in quello snodo. Troppe donne vengono ancora uccise. Ma in milioni alzano la voce. Perché il patriarcato esiste ancora, ma non è più accettabile.

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