- Da anni ormai, in quasi tutti i paesi avanzati, ci si accontenta di navigare a vista contando sulla mancanza di alternative credibili per mascherare la mancanza di risposte ad elettori impoveriti e precarizzati.
- Al di là dello stato confusionale della dirigenza del M5S e della pretestuosità della crisi, non si poteva continuare a far vivere il governo “per non consegnare il paese a Giorgia Meloni”.
- La politica del meno peggio sembra oggi essere arrivata al capolinea. C’è da sperare che, in Italia come in Francia, i partiti tradizionali o quel che ne resta si convincano che un cambio di rotta non sia più posticipabile.
Le ultime settimane ci hanno consegnato la crisi politica di due dei paesi fondatori dell’Ue. In Francia, rieletto più grazie al rigetto della rivale Marine Le Pen che per adesione al suo progetto, Emmanel Macron non è riuscito a ottenere una maggioranza alle elezioni legislative.
Il presidente francese ha deciso di non cercare alleanze organiche ma di formare un governo di minoranza che andrà a cercarsi i voti caso per caso.
Le prime settimane hanno visto una convergenza con la destra dei Repubblicani, ma è chiaro che nessun partito di opposizione ha interesse a firmare cambiali in bianco.
In Italia Mario Draghi invece è rimasto vittima della sua incapacità di elaborare un progetto politico coerente e accettabile per la coalizione eterogenea che lo sosteneva.
Il governo è nato per portare in porto il Pnrr, perdendo ogni ragione di essere nel momento in cui questo è stato consegnato alla Commissione. Da allora non è riuscito a adottare alcun provvedimento significativo, paralizzato dai veti incrociati.
Non è detto che le difficoltà di Draghi e di Macron siano necessariamente una cattiva notizia.
La politica del meno peggio
Da anni ormai, in quasi tutti i paesi avanzati, ci si accontenta di navigare a vista contando sulla mancanza di alternative credibili per mascherare la mancanza di risposte ad elettori impoveriti e precarizzati.
Al di là dello stato confusionale della dirigenza del M5S e della pretestuosità della crisi, non si poteva continuare a far vivere il governo “per non consegnare il paese a Giorgia Meloni”.
La politica del meno peggio sembra oggi essere arrivata al capolinea. C’è da sperare che, in Italia come in Francia, i partiti tradizionali o quel che ne resta si convincano che un cambio di rotta non sia più posticipabile.
Tuttavia, le fibrillazioni politiche italiane e francesi fanno presagire guai seri per l’Europa. I prossimi mesi vedranno sicuramente la Francia e l’Italia ripiegate sui loro problemi interni.
È difficile immaginare che un Macron alla continua ricerca di voti in Parlamento, o un Draghi (o chi prenderà il suo posto) impegnato a sopravvivere fino alle elezioni del 2023 possano contribuire al dibattito sulle riforme europee.
Questa non è una buona notizia perché, nonostante siano stati oscurati dalla crisi di questi mesi, è su questi temi più che sul prezzo dell’energia o sulla guerra in Ucraina, che si gioca il futuro dell’Europa.
Non sono più gli anni Novanta
Le istituzioni europee concepite negli anni Novanta sembrano vestigia archeologiche. In ossequio alla dottrina dominante dell’epoca, gli estensori del trattato di Maastricht e del Patto di stabilità avevano disegnato una governance europea completamente incentrata sulla fiducia nella capacità dei mercati di assorbire shock macroeconomici e di generare innovazione, stabilità e crescita.
Per questo, sulla carta le regole europee prevedono vincoli stringenti alla politica di bilancio (il Patto di stabilità), una banca centrale cui si impone di perseguire solo la stabilità dei prezzi e una politica industriale di fatto inesistente.
A questo quadro si contrappone la pratica che negli ultimi anni ha vistoun massiccio sforzo dei governi per contrastare la pandemia e la crisi; poi, un altrettanto massiccio sforzo della Bce per sostenere I governi con acquisti di titoli; infine, con Next Generation Eu, l’inizio di una riflessione dell’UE su come utilizzare la mano pubblica per orientare e sostenere la trasformazione strutturale dell’economia. Una bozza di politica industriale, insomma.
Oggi è chiara la necessità di riallineare le regole del gioco e la pratica di governi, istituzioni europee e Bce. Questo può essere fatto riportando la pratica nell’alveo delle norme esistenti (come si augura il ministro delle finanze tedesco Lindner); oppure cercando di adattare le istituzioni al ritrovato ruolo della mano pubblica nell’economia, certificato dal lavoro sia teorico che empirico fatto nei dipartimenti di economia e nelle grandi istituzioni internazionali come Fmi e Ocse, oggi molto meno manichee di quanto non fossero prima della crisi del 2008.
Questa sembra in realtà l’unica opzione praticabile: istituzioni più equilibrate sono l’unica speranza che la zona euro sopravviva alla prossima crisi e all’euroscetticismo, che rimane fortissimo.
Che succede in autunno?
È per questo che c’è oggi da guardare con preoccupazione alla difficoltà di Draghi e Macron. Le molte riserve sulle loro scelte politiche in casa non possono far dimenticare che in Europa i due leader hanno sposato con decisione la linea riformista.
La loro lettera al Financial Times del dicembre scorso da un lato ha invocato una riforma ambiziosa del Patto di stabilità, che consenta di proteggere l’investimento pubblico di cui tutti oggi riconoscono l’importanza nel sostenere e orientare la transizione ecologica e digitale; dall’altro, ha suggerito una gestione comune del debito pubblico dell’Eurozona per evitare che questo schiacci I paesi più deboli e ci faccia tornare a un circolo vizioso di austerità e bassa crescita come quello del periodo 2010-2014.
Cosa succederà quando in autunno la Commissione presenterà la propria proposta di riforma del Patto? Si può sperare che nei prossimi mesi i governi di Francia e Italia lavorino perché questa proposta sia ambiziosa, e poi per proteggerla dai probabili attacchi dei paesi frugali? È difficile sperarlo, vedendo come i due paesi si sono ripiegati su sé stessi.
Ancora più problematico si preannuncia il dibattito sulla creazione di una capacità di bilancio comune per I paesi europei, un Ngeu permanente, per intendersi.
Si tratta di un’istituzione tanto necessaria quanto difficile da disegnare in modo da rispettare criteri base di democraticità e efficacia economica; e di cui si dovrebbe dibattere in parallelo alla discussione sul Patto di stabilità (quanto e come restringere le politiche nazionali dipende in larga parte da quanto e come si disegna lo strumento di bilancio comune).
È un dibattito ai suoi inizi, sul quale ci sarà da costruire con pervicacia un consenso politico tutt’altro che scontato. Draghi e Macron, indeboliti, non sembrano oggi in grado di potersi assumere questo compito, mentre in Germania il conflitto tra verdi e liberali sulla linea da tenere in Europa non è ancora risolto.
Insomma, oggi i due leader europei più genuinamente riformisti sono risucchiati dalle rispettive agende domestiche.
Il rischio che la parentesi Covid venga richiusa con una riforma minimalista delle regole europee, che lasci di fatto intatto l’impianto attuale, è molto alto, ed è motivo di grande preoccupazione.
Non si può sperare di tenere a bada le forze euroscettiche senza mettere in agenda in maniera seria e organica delle riforme a livello europeo e a livello nazionale che garantiscano una crescita più equa e sostenibile e un’interazione più virtuosa fra mano pubblica e mercati.
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