- Mentre l’Unione Europea si è trasformata nel quadro globale dall’essere una comparsa al giocare un ruolo da attore proattivo e strategico, l’ex paese-membro Regno Unito si ritrova al contrario isolato.
- Il recente attivismo e il presentismo del primo ministro Boris Johnson sul teatro della guerra in Ucraina può essere compreso come una risposta all’isolamento del Regno Unito post-Brexit.
- Ma non c’è politica estera che non sia anche dettata da problemi e questioni politiche di ordine interno. Da questa prospettiva, le cattive acque in cui naviga da mesi Boris Johnson sembra essere una chiave di lettura tutt’altro che miope a cui la crisi ucraina offre una grande distrazione.
Fra gli aforismi politici più ripetuti sul Regno Unito, primeggia senza dubbio quello del ex-segretario di Stato alla presidenza di Harry Truman, Dean Acheson, il quale alla fine del 1962, un anno prima che il governo di Harold Macmillan avanzasse la prima richiesta di ingresso nell’allora Comunità Economica Europea, sintetizzò lapidario come la Gran Bretagna avesse perso un impero ma non ancora trovato un ruolo internazionale.
Oggi, nel mezzo del riordine geopolitico messo in moto dalla guerra in Ucraina, la logica di quella celeberrima descrizione potrebbe essere capovolta: avendo lasciato l’Unione Europea, imbevuto di populismo nazionalista, il Regno Unito ha fallito (di nuovo) e non ha (ri)trovato un ruolo.
L’attivismo e il presentismo del primo ministro Boris Johnson sul teatro della guerra in Ucraina può essere compreso in questa prospettiva: una risposta all’isolamento post-Brexit.
Dopo Londongrad
Se prima dello scoppio della crisi in Ucraina il primo ministro poteva infatti pensare di proporre un Regno Unito dentro un perimetro composto da un nuovo patriottismo spinto dai successi vaccinali e dalle promesse economiche e commerciali della Brexit, ora il sogno di essere un hub globale svincolato da alleanze, una sorta di Hong Kong nel vecchio continente insomma, è svanito.
Anzi, proprio perché per decenni la cricca degli oligarchi putiniani su entusiasta invito di Downing street, che ci fossero i conservatori o i laburisti prima di loro non cambia, hanno occupato la capitale inglese trasformando alcune zone come Mayfair o Kensington in una sorta di Londongrad, rende l’ipotesi ancora più improbabile ora che Putin ha assunto il ruolo dell’invasore alle porte dell’Europa.
Così, mentre l’Unione Europea si è trasformata dall’essere una comparsa riluttante e paralizzata in una diplomazia ipernormativa al presentarsi nel quadro globale come un attore proattivo e strategico, l’ex paese-membro Regno Unito si ritrova al contrario ad essere isolato e quasi completamente solo ai tavoli Nato e Onu.
Persino la special relationship che lega Londra e Washington fin dalla Seconda guerra mondiale e che con alti e bassi ha tenuto anche dopo la fine dello scontro bipolare e dell’11 settembre, oggi con Biden alla Casa Bianca rischia di raffreddarsi, se non scomparire, di fronte all’emergere di nuovi e ben più influenti attori globali. I tempi in cui Donald Trump inneggiava alla Brexit sono andati e hanno lasciato il campo a una ritrovata solidarietà con l’Unione Europea da parte del nuovo presidente democratico.
Le mosse di Boris Johnson
L’inaspettato ruolo geopolitico assunto dalla ‘vecchia EU’ ha spinto dunque il primo ministro Johnson a saltellare da un aereo all’altro e a presenziare ovunque per difendere interessi strategici di breve e lungo periodo.
Il sostegno senza riserve al presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy – sostegno materiale s’intende: invio di truppe e armamenti – va letto con questa lente. Così come la visita lampo in India, ultimo in ordine di tempo fra i viaggi ufficiali e le strette di mano con capi di stato.
La visita a Nuova Delhi era stata rimandata a causa della pandemia e rientrava fra le varie azioni diplomatiche per riposizionare commercialmente il paese dopo l’uscita dell’UE. Ma chiaramente oggi, ad oltre un mese dallo scoppio della guerra, va ridecifrata nel quadro dei nuovi scenari. Boris Johnson non si è fatto mancare nulla e ad Ahmedabad, in visita all’ashram del leader indipendentista indiano, si è fatto riprendere come Gandhi mentre armeggia con l’arcolaio.
L’ex sindaco di Londra non è nuovo a questi colpi di teatro, ma il confronto con il comportamento, al limite dell’incidente diplomatico, avuto soltanto qualche anno prima quando nel ruolo di ministro degli esteri durante la visita ufficiale in Myanmar recitò i versi di una poesia di Rudyard Kipling che celebrava l’impero britannico è stridente e ci da la cifra del cambiamento di rotta.
È facile farsi trascinare dalla polemica di breve respiro, a cui Boris Johnson offre senza dubbio ogni giorno nuovi spunti, e liquidare la lettura di questa sterzata analizzando soltanto cause e conseguenze a passi di una o due settimane massime.
Certo, è vero che la Gran Bretagna non è così dipendente dal gas russo come il resto del continente, ma è allo stesso tempo investita come gli altri paesi europei da un incremento del costo della vita esponenziale che indirettamente è conseguenza delle sanzioni, le quali peraltro si sommano agli effetti causati dalla Brexit.
Ma tutto questo non è abbastanza per spiegare quella che potremmo definire una ‘sindrome da James Bond’, cioè il bisogno e la convinzione di essere ancora un paese irrinunciabile nella partita geopolitica globale.
In fuga dal partygate
Non c’è infatti politica estera, per quanto di lungo respiro e rinnovatrice – e quanto l’iperattivismo di Johnson lo sia è ancora tutto da dimostrare – che non sia anche dettata da problemi e questioni politiche di ordine interno.
Da questa prospettiva, le cattive acque in cui naviga da mesi la leadership di Boris Johnson sembra essere una chiave di lettura tutt’altro che miope a cui la crisi ucraina offre una grande distrazione.
Visto probabilmente da fuori il partygate, cioè lo scandalo delle feste organizzate a Downing street durante il lockdown e a cui ha partecipato più volte lo stesso Johnson, potrà sembrare un inciampo politico solo per le prime pagine dei tabloid. Il primo ministro, così come la moglie e altri membri del governo, sono stati per il momento multati, ma Johnson è ancora oggetto di altre indagini e sicuramente ci saranno ulteriori infrazioni accertate.
Da un punto di vista istituzionale il fatto che Johnson abbia ripetutamente mentito al parlamento è senza dubbio grave. Pare che questa sia in assoluto la prima volta che un primo ministro deliberatamente inganni l’aula.
Chi ha un po’ di dimestichezza con le cronache parlamentari storiche, e soprattutto con quelle del partito conservatore, sa che non è esattamente così. Ma il fatto che questa sia diventata la narrazione dominante è un dato interessante.
Non è tanto una questione di etica pubblica, ma di pura politica di partito. La polemica infatti sta dando fiato e coraggio alla macchina del partito, su cui Johnson non è mai stato capace di esercitare una egemonia concreta. Con la maggioranza che ha ottenuto alle ultime elezioni, il primo ministro può essere rimosso e sostituito soltanto da una rivolta interna.
Il post-populismo
Il post-populismo di Boris Johnson non si fonda su una relazione organica e funzionale con i vari addentellati del partito ma si nutre di una continua tensione con un presunto obiettivo proiettato nel futuro per il quale c’è bisogno di una continua esaltazione propagandistica.
La conclusione del processo per la Brexit è stata il "mezzo” per sostenere questo tipo di leadership alle scorse elezioni. Va dunque letta con queste lenti l’uscita infelice in cui il primo ministro ha paragonato la resistenza ucraina al desiderio di libertà che ha spinto il popolo inglese a votare per la Brexit. Per fortuna l’associazione è stata rigettata da tutti.
In questo quadro il sostegno all’Ucraina è dunque senza riserve. Anche il partito laburista, seppure con toni diversi, non ha dubbi da quale parte stare: con il paese invaso e con la Nato. Le posizioni nel partito e nel suo elettorato sono ovviamente variegate, più complesse, anche contraddittorie.
Ma la linea che va ripetendo con forza il leader Keir Starmer è in totale continuità con la storia del partito: fu Ernest Bevin, al Foreign Office nel tanto celebrato governo di Clement Attlee, a volere il paese nel Patto Atlantico.
Intanto che c’è, però, in vista delle elezioni amministrative del prossimo 5 maggio Starmer coglie anche l’occasione per segnare di nuovo la distanza da Jeremy Corbyn, che qualche giorno fa ha dichiarato di preferire un mondo senza alleanze militari. Il suo ragionamento era ovviamente più articolato, ma tant’è.
I cambi di logica sul piano geopolitico sono processi che non avvengono in un paio di settimane, hanno bisogno di spazi di compensazione e momenti di riflessione lontani dagli obiettivi dei giornalisti e da Twitter. Chi andrà a Downing street dopo Johnson – e i sondaggi sono tornati ad essere favorevoli ai laburisti – dovrà raccogliere i cocci di una politica estera di corsa e raffazzonata. E dovrà continuare a cercare un ruolo per la Gran Bretagna in una mappa che non è più quella del 23 giugno 2016, quando il 51,9 degli inglesi votanti ha deciso per l’uscita del paese dall’Unione Europea.
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