Il dibattito tra Veronica De Romanis e Marco Buti alza il velo sulla disattenzione del nostro mondo politico. La proposta di riforma del patto di stabilità non ci favorisce ma mette in campo nuove regole opinabili e poco flessibili, All’Italia serve urgentemente una posizione a riguardo
L’allarme che Veronica De Romanis ha lanciato sulla proposta di riforma del Patto di stabilità e crescita da parte della Commissione Ue è del tutto giustificato e anche pressante. Mentre in Italia si litigava sui rave e altre simili amenità, oltre che ovviamente sugli sbarchi che al contrario sono un dramma serio ma vengono regolarmente manipolati a scopi polemici, la Commissione ha lanciato una proposta di riforma che rischia di mettere nei guai il nostro paese, soprattutto a causa della disattenzione con cui è stata accolta.
Di conseguenza è urgente che governo e opposizioni diano la loro risposta e reagiscano rapidamente: si tratta di uno di quei casi nei quali sarebbe auspicabile una posizione bipartisan per andare a Bruxelles con le idee chiare e con la maggior forza contrattuale possibile. Alla prof. De Romanis ha risposto un informato parere di Marco Buti, capo di gabinetto del commissario Ue agli affari economici Paolo Gentiloni, a cui infine ha replicato la stessa De Romanis.
Non essendo uno specialista in materia mi limito alla valenza politica di tale interessante scambio. Come spesso avviene, la Commissione basa le sue ragioni sull’aspetto tecnico e di processo: Buti infatti scrive che il loro approccio è «un contributo tecnico» per facilitare il dialogo tra Commissione e stati membri. Tuttavia nella realtà è noto che di tecnico non esiste quasi nulla: anche le scelte tecniche alla fin fine sono sempre politiche. In questo caso si può scorgere un tentativo (tra gli altri) di concentrare il potere di decisione nelle mani della Commissione.
Tale manovra è ampiamente giustificata dalla storia degli equilibri interni del processo di codecisione europeo: sarebbe lunga la narrazione della lotta tra i poteri della Commissione, del Consiglio e del parlamento ecc.. Siamo su un terreno molto favorevole alla Commissione che fa valere il suo ruolo esecutivo (e quindi decisionale sotto l’apparenza di “valutazioni tecniche”). Una più attenta analisi delle attuali condizioni delle istituzioni europee fa tuttavia capire che tale approccio è fuori tempo e rischia –come fa giustamente osservare la De Romanis - di ottenere l’effetto contrario.
I rischi dell’automatismo
Cosa migliora e cosa resta troppo uguale nella riforma del Patto di stabilità
Per l’Italia esiste un tema specifico: ogni maggiore o più libero margine di discrezionalità nella valutazione delle condizioni del nostro debito, può divenire un pericolo non tanto perché tecnico ma perché restringe le nostre possibilità negoziali. In altri termini: più le regole si automatizzano e meno l’Italia potrà trattare cercando di ottenere condizioni sempre migliori. L’attuale stato del processo di integrazione europea, una volta sconfitta la Costituzione con i referendum del 2005, riposa sulla tensione tra regole tecniche e negoziato. Il punto che la De Romanis solleva è che con le nuove regole la Commissione avrà il potere non solo di chiedere riforme (già lo fa) ma anche di indicare quali, cioè di indicare come rientrare dall’eccesso di debito. In questo modo ai nostri governi si restringono i margini di manovra. Allo stesso tempo la Commissione si arrogherebbe il diritto di sospendere i finanziamenti del Pnrr, connettendo illegittimamente debito nazionale e debito europeo. Ciò significa che i passi avanti fatti con la parziale mutualizzazione del debito all’epoca del Covid svanirebbero.
Nella proposta della Commissione si vede riemergere la mano dei fautori della politica dell’austerità. Sia chiaro: l’Italia ha troppo debito e deve essere credibile nel garantire i suoi piani di rientro: ne va della nostra reputazione sui mercati. Nessuno si sogna di proporre finanza allegra o assenza di dialogo con la Commissione. Quello che però può essere chiaro a tutti, anche a chi non se ne intende di questa materia, è che sistemi troppo rigidi e automatismi vari non ci favoriscono mentre la via negoziale ci conviene, sempre e in ogni caso.
La Commissione tende a dire: è meglio per l’Italia negoziare con noi che con gli altri stati membri. La risposta potrebbe essere: forse sì ma non a prezzo di meccanismi poco flessibili e opinabili. Ciò vale soprattutto in questi tempi in cui la ricerca di legittimità politica è generale (anche se incerta), mentre la reputazione dei “tecnici” risulta controversa e contrastata, a torto o a ragione. Si tratta dunque anche di una questione di opportunità politica che la Commissione dovrebbe comprendere, pena la perdita di autorevolezza in un momento in cui le istituzioni europee sono infragilite. Come scrive la professoressa De Romanis: in queste cose ci vuole giudizio.
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