- Sappiamo tutto sulla sua vita privata e sulla sua malattia e sappiamo niente sulle alte protezioni che ha goduto in trent’anni di indisturbata latitanza. Fra i favoreggiatori solo qualche suo paesano.
- Capitale infetta alla fine è solo Campobello di Mazara, un paese rappresentato come un grande covo di complici. Come se il boss fosse rimasto libero soltanto grazie agli appoggi di quella comunità.
- Fa comodo rappresentare Matteo Messina Denaro ancora oggi come simbolo del potere criminale ma il giornalismo non ci fa una grande bella figura. La cattura è diventata una soap opera, la mafia banalizzata, la mafia che fa spettacolo a puntate.
La cattura di Matteo Messina Denaro è diventata una soap opera. La mafia fa spettacolo a puntate, fa cinema. C'è una banalizzazione paurosa che esalta l'ovvio, pettegolezzi spacciati come segreti, retroscena che non svelano nulla, il niente che è sempre “clamoroso”, “inedito”, “esclusivo”.
Della vita privata di quello che fu un boss di Cosa Nostra ormai ne sappiamo più di ogni altro mafioso siciliano o calabrese o messicano, dei suoi protettori di alto livello che gli hanno garantito trent'anni di libertà nemmeno un nome per sbaglio.
Della sua malattia conosciamo ogni evoluzione, cartelle cliniche, orari e date ed esiti di esami, di dove abbia vissuto e insieme a chi dal 1993 non c'è traccia nei “mattinali" che vengono implacabilmente diffusi.
E lì dentro non mancano mai particolari boccacceschi, su fidanzate vere o presunte, su triangoli amorosi, gelosie.
Al contrario mancano ancora pezzi sulla ricostruzione della dinamica del suo arresto, resta in piedi solo quella ufficiale con lui suonato come una campana che si fa trascinare fuori dalla clinica palermitana da due carabinieri.
E poi il covo, che è sempre e solo il paese di Campobello di Mazara, capitale mafiosa infetta, come se lui avesse regnato sempre e solo lì, come se avesse comandato Cosa Nostra sempre da lì, come se avesse gestito affari per cinque miliardi di euro sempre e solo da lì.
Da quelle due tane dove aveva trovato riparo, collaborato dai propri parenti e dai favoreggiatori più stretti che portano tutti agli stessi cognomi e a tre nuclei familiari: Bonafede, Tumbarello, Luppino.
Il genio del male
Ma non era il genio del male che aveva fatto tremare l'Italia? Non era il fantasma sostenuto da padrini di stato che gli hanno consentito tre decenni di indisturbata libertà?
I conti non tornano.
Più il personaggio viene pompato da una macchina di propaganda investigativa e giudiziaria e più quell' erede mancato del capo dei capi Totò Riina appare piccolo piccolo, non adeguato al ruolo che gli era stato cucito addosso, un'altra persona rispetto al padrone mafioso che era stato dipinto.
E' comprensibile l'enfasi per la cattura di un uomo ricercato dai mesi dopo le stragi, si capisce un po' meno la grancassa montata intorno a questo boss che non è più boss di niente, che probabilmente non lo è stato negli ultimi tempi neanche nel suo territorio, la provincia di Trapani.
Mentre scriviamo c'è venuta in mente un'intervista rilasciata dall'ex questore di Palermo Renato Cortese (il poliziotto che ha preso Bernardo Provenzano a Corleone dopo quarantatré anni di latitanza) che già nel 2019 di Matteo Messina Denaro parlava come di «soggetto che probabilmente non ha più alcun ruolo nell'organizzazione e che quindi è defilato… non partecipa alle riunioni, non ha strategie criminali, gli affiliati non rendono conto a lui». Più chiaro di così.
Eppure ce lo stanno vendendo ancora come se fosse una sorta di re dei re del crimine mondiale, metà Al Capone e metà Pablo Escobar, una leggenda.
Dalle prime immagini diffuse abbiamo intuito in realtà che Matteo Messina Denaro era un cadavere ambulante, uno zombie che si trascinava dalla sua Campobello a Palermo fra selfie e messaggini inviati alle amiche in cura.
L'abbiamo detto subito il 16 gennaio scorso: è un quasi morto di una mafia morta.
Nonostante ciò è sempre in prima pagina, come se incarnasse davvero la mafia di oggi, lui con il suo montone da gigolò, con il suo ridicolo e primitivo manifesto «sui piemontesi che si sono presi Roma e l'Italia».
Meriti e colpe
C'è qualcosa che non funziona. E' la ragione è abbastanza evidente: la comunicazione, in questo caso come in altri recenti casi, ha sopraffatto l'informazione. Se l'è ingoiata, l'ha divorata.
E' stato il primo arresto di un grande boss nell'era dei social ma paradossalmente una verità unica si è imposta impietosamente sul giornalismo.
Non saprei dire se è solo merito (o colpa) di coloro che tengono in mano il copione o demerito di noi che raccontiamo o che dovremmo raccontare, di sicuro la vicenda segna un salto indietro significativo nella narrazione delle mafie.
In pochi hanno sollevato dubbi sulla pur assai anomala versione che ci hanno consegnato sulla cattura o sul ritrovamento di quel pizzino nella gamba di una sedia di metallo nella casa della sorella Rosalia, in molti hanno preferito accontentarsi dell'ufficialità, della solita zuppa intorno a una mafia che non comanda più.
Fa comodo a tanti che Matteo Messina Denaro venga presentato ancora come il simbolo del potere criminale, ma il giornalismo italiano non ci fa una gran bella figura.
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