La prima volta che sono andato in America ave­vo ventisei anni. Non c’ero mai stato, parlavo un inglese a dir poco scolastico ed ero semplicemen­te il figlio di un piccolo imprenditore con una fabbrichetta di tubi metallici flessibili, adatti a tra­sportare liquidi ad alta temperatura, vapore o liquidi corrosivi.

Quando lessi su una rivista che la DuPont aveva inventato un nuovo materiale, il teflon, capace di resistere fino a 180 gradi di temperatura, pensai che avrebbe potuto essere una concorrenza pericolosa per la nostra azien­da. A meno che non si riuscisse a prendere la li­cenza per un’esclusiva. Scoprii che c’era una fab­brica, la Resistoflex, a Roseland, New Jersey, e partii.

Nei primissimi anni Sessanta le comunicazio­ni non erano certo quelle di adesso, così scelsi la via più semplice anche se meno ortodossa. Mi presentai in portineria e chiesi alla receptionist: «Vorrei parlare col presidente».

«Ma lei chi è?»
«Sono un imprenditore che viene dall’Italia.»

La mia fortuna fu che il presidente della so­cietà non solo era in sede, ma si chiamava Joe Gentile: nato in America, era però di origini ita­liane. Che un giovane italiano fosse arrivato fin nelle lande sperdute di Roseland per parlare con lui, probabilmente, lo incuriosì e proprio per cu­riosità mi ricevette.

Rimasi a Roseland dieci giorni e negoziai una licenza di fabbricazione e una joint venture tra quell’azienda, la nostra e una ditta tedesca. Co­struimmo una nuova fabbrica vicino a Stoccar­da, dove avevo degli amici che convinsi di quan­to il futuro fosse nel teflon: si chiama Resistoflex Gmbh e c’è ancora, testimonianza in solida mu­ratura del primo successo professionale della mia vita.

Tornai in seguito negli Stati Uniti per visitare New York. Quando entrai da Bloomingdale’s, il primo grande magazzino che avessi mai visto, l’opulenza americana mi conquistò insieme alla febbre, all’attivismo di quella città.

Ero giovane e tendevo a vedere solo gli aspetti positivi, in più quelli erano anni dorati: l’America era il regno non solo dell’abbondanza ma della cultura, del­la creatività. E delle possibilità illimitate, per cui davvero si poteva sognare di partire da un lavo­ro umile e arrivare a diventare presidente.

La sconfitta dei lavoratori

Oggi non è più così e non solo in America. La globalizzazione, che ha segnato il mondo post-Guerra Fredda, ha determinato anche la fine dei vecchi equilibri sociali e politici. I lavoratori, che avevano combattuto per migliorare le proprie condizioni, hanno visto i loro alleati sparire ra­pidamente dal campo di battaglia.

Un intero popolo è rimasto solo e le armi che aveva bran­dito – lavoro, partecipazione politica, progres­so culturale – nel tempo hanno perso il filo, hanno perso i pezzi e a volte si sono trasforma­te in boomerang.

Una delle prime conseguenze della globalizzazio­ne è stata la fine del potere dei sindacati. In un contesto in cui i «giacimenti di lavoro» all’estero favorivano la delocalizzazione e lo sfruttamento della forza lavoro non sindacalizzata in altri con­tinenti, il potere contrattuale di queste grandi or­ganizzazioni si è drasticamente ridotto.

A segnar­ne il destino si è aggiunta la frammentazione del sistema produttivo, con l’espandersi del settore dei servizi e la crescita di nuove forme di occupa­zione più fluide e instabili.

In questa situazione, in cui non bastano cer­to le politiche dei vari governi per riqualificare il lavoro, bisogna che gli imprenditori si faccia­no carico di una responsabilità sociale che han­no, in molti casi, disatteso a lungo. Una possibi­le via, lo dico da imprenditore, è accontentarsi di profitti più bassi. Ma ce ne sono altre due: au­mentare i prezzi e aumentare l’efficienza.

In questo senso, l’aumento dei salari può essere una spinta preziosa all’innovazione. È chia­ro che, finché il lavoro costa poco, l’azienda sarà meno motivata a investire in innovazione per crescere e migliorarsi.

Anche per questa ragione l’aumento del tasso di produttività in Italia è in­feriore rispetto alla Germania: i tedeschi, doven­do pagare alti stipendi, investono in automazio­ne, digitalizzazione, formazione.

Invece un paese che si regge su costo basso del lavoro, niente in­vestimenti e scarsa produttività è un paese che vive di espedienti, senza solide basi economi­che, esposto a ogni crisi. L’ingiustizia è anche antieconomica.

Riqualificare il lavoro significa incentivare le persone a specializzarsi e a formarsi, nella cer­tezza che a migliori qualifiche corrispondano sa­lari più alti. Significa aumentare la nostra com­petitività e migliorare l’equazione economica che lega costo del lavoro-produttività-risparmio.

Se un’impresa di eccellenza come la Ferrari ha di­stribuito all’inizio del 2023 un premio di 13.500 euro ai suoi dipendenti, non previsto da alcun contratto, è perché ha una visione di sistema: pagarli meglio comporta più gratificazioni, più qualità, e in prospettiva più sicurezza economi­ca, più consumi. È un investimento che ritorna moltiplicato, così come ogni investimento che vada nella direzione della giustizia e della ridu­zione della disuguaglianza. Compresi quelli sul lavoro femminile, altro scandalo nazionale.

Non solo quote rosa

(laPresse)

È vero che in un Paese in cui il carico della cu­ra famigliare ricade ancora in gran parte sulle spalle delle donne, il primo strumento per au­mentare il nostro scandaloso 50% di occupazio­ne femminile è il welfare: più asili, tempo pieno a scuola, servizi migliori per gli anziani e i disa­bili.

Possono poi servire forzature, almeno tem­poranee: le quote rosa sono state utili. Io stesso ho avuto per anni consigli di amministrazione interamente maschili e ho introdotto figure fem­minili proprio in seguito a questa norma: senza, sarei rimasto nell’inerzia di un sistema che qua­si automaticamente promuoveva gli uomini.

Og­gi, in questo ambito, la battaglia da portare avanti con più convinzione è quella sulla parità di retribuzione tra maschi e femmine a parità di mansioni. Perché, come quella sul salario mini­mo, è una battaglia di giustizia che incide sulla qualità del lavoro, sull’efficienza delle imprese e sulla partecipazione delle donne alla vita econo­mica e alla vita pubblica.

La questione salariale e una profonda rifles­sione sui modelli produttivi vanno affrontate insieme. È preoccupante che – con molte e lo­devoli eccezioni – nel mondo imprenditoriale italiano manchi questa visione, ed è inaccettabi­le che manchi ai sindacati.

Sarebbe stato il loro compito, negli anni della globalizzazione, com­prendere a fondo l’enorme problema costituito dalla svalutazione del lavoro e dalla stagnazio­ne della produttività, discuterne per modificare la prospettiva delle proprie controparti, tentare di porvi rimedio. Non lo hanno saputo fare.

Non solo il sindacato non si è adeguato alle nuove forme contrattuali, lasciando senza tutele inte­re categorie di lavoratori perlopiù giovani, a tempo determinato, a chiamata, a progetto e al­tro; non ha nemmeno saputo tutelare gli inte­ressi dei suoi interlocutori tradizionali, la mas­sa dei lavoratori dipendenti.

È vero, il mondo è cambiato in fretta. La gran­de impresa è una realtà del passato. Sarebbe ana­cronistico pensare oggi di creare la Marelli, la Fiat, la Brembo. Esistono ancora imprese con centinaia o anche migliaia di dipendenti, ma la concentrazione di manodopera che ha caratte­rizzato l’epoca precedente alla globalizzazione non esiste più e il bacino di iscritti su cui un sin­dacato poteva contare in una fabbrica degli an­ni Settanta oggi non sarebbe pensabile.

Come dirigente e come imprenditore, ricordo molte occasioni di dialogo con i sindacati, altret­tante di discussione e anche di scontro.

Ricordo gli scioperi del 1969, e una mattina in cui entran­do in fabbrica la mia automobile fu circondata e ribaltata, letteralmente, con me dentro.

Ma ho anche ricordi di una vera istituzione, importante nel contesto sociale e politico, e di persone di qua­lità come Luciano Lama e come Bruno Trentin, forse il più grande sindacalista che il nostro Paese abbia avuto, una persona di raro acume, cultura, profondità di pensiero.

Oggi, quel tipo di inter­locuzione appartiene tecnicamente a un altro se­colo. Ma deve essere possibile ripristinare un dialogo, nell’interesse di tutti, per pretendere in­nanzitutto lavoro migliore e meglio retribuito. Scommettendo che in questo modo ne avremo anche di più.

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