- Il linguaggio dei nostri tempi riflette la polarizzazione sociale in atto. Non sono convinto che l’accettare come equivalenti posizioni fondate sul rispetto delle evidenze scientifiche e fantasie complottiste di ogni tipo sia il corretto antidoto.
- Come possiamo, in un mondo di comunicazione dal basso, di echo chambers, di gruppi sempre più chiusi stabilire una qualche forma di credenza condivisa?
- C’è, poi, un terzo aspetto: sarebbe colpevole non notare quanto le opinioni personali siano deviate ed indirizzate da attori politici con chiaro intento propagandistico, quando non direttamente eversivo.
Fa bene Viola Di Grado a ricordarci, su Domani del 6 febbraio, quanto il linguaggio che stiamo utilizzando assomigli sempre più a un veleno capace di inquinare la nostra convivenza sociale. Da un lato Sì-vax dall’atro No-vax. Due schieramenti l’un contro l’altro armati, che si colpiscono a colpi di social network. Dal momento che il linguaggio dà forma alla nostra esperienza, è chiaro quanto tutto ciò accentui il processo di polarizzazione sociale che stiamo vivendo da diversi anni e che pare aver raggiunto nuovi picchi durante la pandemia.
Ohev shalom ve rodef shalom. Ama la pace e persegui la pace è scritto nei Pirkei Avot, le Massime dei padri, testo chiave della sapienza ebraica. Il problema è quale sia la strada giusta per perseguirla, la pace. Non sono convinto che l’accettare come equivalenti posizioni fondate sul rispetto delle evidenze scientifiche e fantasie complottiste di ogni tipo sia il corretto antidoto.
Almeno due argomenti mi inducono a pensare il contrario. Il primo è che rifarsi all’antico adagio per cui ognuno ha diritto ad una propria opinione rischia di erodere ancor più qualunque territorio condiviso, accentuando il processo di frammentazione sociale piuttosto che risolverlo.
Sarebbe, forse, la classica pezza peggiore del buco. Il secondo è se il miglior modo per ricomporre una frattura sociale sia rinunciare a qualunque forma di verità pubblica. Da tempo la cultura occidentale ha criticato, con molte ragioni, gli aspetti autoritari della verità, finendo, però per buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Non è certo questo il contesto per addentrarsi in una definizione della verità compatibile con l’approccio critico moderno, ma si può almeno sottolineare quanto una verità comunemente accettata svolga un’essenziale funzione di collante sociale, stabilendo orizzonti condivisi che danno forma ad una comunità.
E proprio questo appare il problema: come possiamo, in un mondo di comunicazione dal basso, di echo chambers, di gruppi sempre più chiusi ed autoreferenziali alimentati da algoritmi che ti mettono in contatto solo con mondi simili al tuo stabilire una qualche forma di credenza condivisa?
A ben vedere si tratta dell’annoso tema della creazione di uno spazio pubblico nell’era di internet, che pare sempre più scomporre le nostre società in una serie di nuclei tribali isolati. Come trasferire nell’era digitale l’impareggiabile funzione svolta dalle istituzioni pubbliche moderne, a cominciare dalla scuola, che ha posto le une di fianco alle altre persone con estrazioni sociali, culturali, familiari totalmente diverse?
Il collante sociale
Sarebbe forse il caso di colmare il gap con gli attori privati e creare piattaforme pubbliche, che svolgano la funzione di collante sociale attraverso il confronto fra differenze anche molto accentuate? Ipotesi assai dibattuta in questi anni, che consentirebbe ai governi di aumentare il loro potere contrattuale nei confronti delle pretese, anche di questi giorni, delle piattaforme sociali e dei colossi della Silicon Valley.
Se, come si suol dire, ormai i buoi sono scappati e il divario di know how fra Meta, Twitter, Google e compagnia danzante è troppo ampio, si potrà forse riparare attribuendo una sorta di qualifica «facente funzione pubblica» alle aziende private, non solo perché si assumano le responsabilità editoriali che competono loro, ma anche perché modifichino i loro algoritmi in modo da creare spazi pubblici che aprano alla differenza piuttosto che alla chiusura autoreferenziale.
C’è, poi, un terzo aspetto che credo sia da considerare. Il mito del web come prateria libera e libero scambio di opinioni è svanito da tempo. Apparteneva al racconto delle origini, definitivamente smontato dall’avvento prima e la diffusione poi delle reti sociali. Oggi sarebbe colpevole non notare quanto le opinioni personali siano deviate e indirizzate da attori politici con chiaro intento propagandistico, quando non direttamente eversivo.
Ammettere questi soggetti nel dibattito pubblico accettando supinamente che creino attorno a loro una massa critica in grado di modificare gli equilibri sociali e addirittura portando a esiti elettorali impensabili solo pochi anni fa (vedasi elezione di Donald Trump e referendum Brexit), vorrebbe dire favorire l’ultimo passaggio del processo di disgregazione sociale che stiamo vivendo.
Per rimanere in ambito filosofico, visto che l’articolo da cui siamo partiti citava opportunamente Ludwig Wittgenstein, non si può non ricordare il declino della kallipolis, la città felice, descritto da Platone nella Repubblica: dopo la democrazia viene la tirannide.
© Riproduzione riservata