- Alcune nomine di Joe Biden suggeriscono una svolta progressista, da parte di un presidente ritenuto moderato, nella regolamentazione dei colossi dell’economia digitale.
- La lotta alla disuguaglianze, e la difesa stessa della democrazia, passano infatti anche dalle politiche che disciplinano queste imprese.
- La filosofia della politica antitrust americana di moda negli ultimi decenni ha avuto come criterio fondamentale la massimizzazione del “benessere del consumatore”, che cresce quanto più i prezzi di beni e servizi sono bassi.
Alcune nomine di Joe Biden suggeriscono una svolta progressista, da parte di un presidente ritenuto moderato, nella regolamentazione dei colossi dell’economia digitale. La lotta alla disuguaglianze, e la difesa stessa della democrazia, passano infatti anche dalle politiche che disciplinano queste imprese.
I giuristi Tim Wu e Lina Kahn, entrambi docenti alla Columbia University, faranno parte, rispettivamente, del National Economic Council, il ramo dell’esecutivo che offre al presidente consigli di natura economica, e del direttivo della Federal Trade Commission, l’agenzia che vigila sul rispetto della legislazione antitrust.
Kahn e Wu sono fra i principali esponenti di un gruppo di studiosi e attivisti che propongono di tornare ad un approccio interventista nella regolamentazione dei mercati, più simile a quello della prima metà del Novecento rispetto a quello dominante dagli anni Settanta.
Il benessere del consumatore
La filosofia della politica antitrust americana di moda negli ultimi decenni ha avuto come criterio fondamentale la massimizzazione del “benessere del consumatore”, che cresce quanto più i prezzi di beni e servizi sono bassi.
Un’impresa, per quanto dominante in un mercato, non viola le regole della concorrenza se offre un prodotto a prezzi inferiori ai concorrenti. Fusioni e acquisizioni, anche se portano all’esclusione di potenziali rivali, non sono dannose se non portano a prezzi più elevati.
Secondo questa logica, le grandi imprese tecnologiche che oggi dominano l’economia (Google, Facebook, Amazon, ecc.) sono campioni di efficienza e benessere. Per quanto possano crescere, non c’è motivo di temere uno sfruttamento dei consumatori o comportamenti sleali verso i concorrenti.
I social media sono gratuiti per gli utenti, e anche per prodotti a pagamento, come i libri su Amazon, i prezzi sono convenienti; come possono i consumatori essere penalizzati? Inoltre, le tecnologie alla base di questi servizi sono note, e disponibili anche ad altre imprese che volessero competere, se ci riescono; i principi di mercato sono quindi salvaguardati.
Questo approccio si distanzia da quello prevalente nella prima parte del ventesimo secolo. La preoccupazione originaria verso il potere di mercato non riguardava soltanto l’aumento dei prezzi e la restrizione dell’offerta. A essere problematica era anche la dimensione delle imprese per sé.
La concentrazione dell’attività economica in poche mani rappresentava un rischio per l’effettiva uguaglianza di opportunità e per la tenuta stessa della democrazia. Imprese dominanti avrebbero avuto eccessiva influenza sul potere politico. La consapevolezza di queste disparità avrebbe ridotto gli incentivi all’imprenditorialità e anche all’impegno sociale e politico. Woodrow Wilson, poi diventato presidente, sosteneva che «ciò di cui il Paese ha maggiormente bisogno è una legislazione che si occupi di coloro che ancora devono farcela, non di chi ce l’ha già fatta».
Il giudice costituzionale Louis Brandeis, forse il più rappresentativo sostenitore di questa visione, scriveva che «la più grande minaccia alla libertà è una popolazione inerte». La protezione della concorrenza, insomma, consisteva in salvaguardare le persone non solo come produttori o come consumatori. La legislazione antitrust doveva innanzitutto tutelare le persone come cittadini, e nel far questo, rendere più effettiva l’uguaglianza di opportunità economiche e politiche e più solida la democrazia.
Kahn, Wu e altri sostengono che questa visione, lungi dall’essere obsoleta, è fondamentale per affrontare alcune questioni che le grandi imprese tecnologiche oggi sollevano.
La distorsione delle piattaforme
La digitalizzazione dell’economia ha favorito lo sviluppo di mercati in cui operano “piattaforme”, ovvero spazi dove gli utenti finali, i consumatori, interagiscono sia fra di loro sia con fornitori di vari prodotti.
Amazon fa “incontrare” compratori e venditori delle più disparate merci; Google o Facebook ospitano inserzioni pubblicitarie volte a convincere gli utenti ad acquistare un prodotto.
Si creano, in questi casi, effetti “di rete”: più sono gli utenti che queste piattaforme riescono ad attirare, più è conveniente per venditori/inserzionisti agire su queste piattaforme; e più sono i prodotti e gli utenti, più altre persone decideranno di aggiungersi, e così via. Il vantaggio dall’operare sulla stessa piattaforma porta al dominio di poche grandi piattaforme sul mercato.
Queste imprese hanno messo in moto il meccanismo di crescita innanzitutto attraendo utenti con condizioni molto vantaggiose: gratuità o prezzi bassi. Ma allora, da dove vengono ricavi e profitti?
Se i consumatori godono di condizioni vantaggiose, per produttori e inserzionisti le cose sono meno rosee. Amazon è nota per imporre limiti stringenti, per esempio, a case editrici o fornitori di altri beni. Inoltre usa vari strumenti per esercitare controllo, per esempio influenzando l’ordine con cui certi prodotti appaiono sullo schermo di un potenziale acquirente.
Google o Facebook hanno simili pratiche. Un’altra strategia è quella di acquisire potenziali concorrenti: i casi di Facebook con Instagram e Whatsapp sono i più eclatanti.
Queste pratiche volte ad alimentare una crescita continua sono state oggetto recentemente di grande scrutinio e critica. Numerosi studi mostrano come post con informazioni o notizie ad alto contenuto emotivo, specie se le emozioni sono negative (rabbia, conflittualità...), aumentano il coinvolgimento degli utenti, rendendo una piattaforma più appetibile per gli inserzionisti.
A loro volta, imprese che hanno una presenza sui social media, per esempio editori di giornali e riviste, derivano un maggior vantaggio dal divulgare notizie sensazionalistiche, ma magari false o non verificate, per aumentare il traffico anche verso i loro stessi siti web, e quindi essere a loro volta più appetibili sul mercato pubblicitario.
Il bene più rilevante su piattaforme come Amazon, Google e Facebook è proprio l’informazione – i libri su Amazon, e le informazioni che sempre piu’ le persone ottengono da motori di ricerca e social media. Ma fondatezza e pluralismo dell’informazione non sono necessariamente compatibili col modello di business di queste imprese.
L’effetto sull’informazione
Il dominio di questi attori sul mercato crea eccessive sperequazioni di opportunità, e può rendere la popolazione più passiva, come Wilson e Brandeis avvertivano. Ma poiché conoscenza e informazione hanno un ruolo speciale per il buon funzionamento della democrazia, la distorsione e possibile soppressione dell’informazione ci minacciano innanzitutto come cittadini, seppure a basso prezzo.
Ne abbiamo visto gli effetti in alcuni dei principali eventi politici degli ultimi anni, dalle elezioni presidenziali americane e il referendum sulla Brexit nel 2016, al generale avvelenamento del discorso pubblico e aumento della polarizzazione politica e sulla rete e fuori.
Le persone più suscettibili a queste distorsioni sono quelle meno istruite e con meno dimestichezza con le tecnologie digitali, che spesso fanno parte delle categorie più svantaggiate socio-economicamente. Le tendenze monopolistiche e i modelli di business dei colossi della rete diventano quindi ulteriori fonti di disuguaglianza economica, sociale e politica.
Il ritorno di una maggioranza democratica, e più progressista, alla Camera nel 2018, ha portato una maggiore attenzione verso questi rischi. Si tratta di un cambio radicale: le amministrazioni repubblicane e democratiche che si sono succedute nel mezzo secolo passato – forse anche a causa dell’influenza politica delle grandi imprese – avevano di fatto concluso che, soprattutto nei mercati digitali, il tema dell’antitrust fosse superato.
La Commissione europea, specialmente nella figura della commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager e del suo capo economista dal 2016 al 2019, l’italiano Tommaso Valletti, hanno avuto un ruolo centrale nel condurre una politica più attiva. Il dibattito su come riformare la legislazione e pratica dell’antitrust nell’era digitale è tuttora in corso; ma già il fatto che questo dibattito avvenga è una novità rispetto al pensiero unico in materia degli ultimi cinquant'anni.
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