- I furori iconoclasti sono serviti al Movimento Cinque stelle per conquistare una platea indefinita, persino amorfa, rancorosa rispetto al sistema, al regime, all’establishment, ai poteri forti.
- Il M5s ha perso per strada quel tipo di sostegno e ha smesso di cercarlo.
- L’esperienza di governo ha depurato il movimento di tanta parte del suo bagaglio barricadiero. Per cui oggi inevitabilmente ritorna al pragmatismo riformista delle origini ecologiste con Giuseppe Conte e i sempre più istituzionali Luigi Di Maio e Roberto Fico.
Il Movimento 5 Stelle è sempre stato un fenomeno di difficile decifrazione. In parte per l’originalità della sua fisionomia, in parte per l’approssimazione e i pregiudizi che lo circondano. Ogni movimento politico, quando nasce, si scontra con gli altri partiti perché deve occupare un proprio spazio. I toni variano, ma se si ricordano quelli adottati dalla Lega degli esordi non ci sono molte differenze con il linguaggio del M5s. Iperboli, volgarità, insulti vennero riversati anche allora su tutti i partiti tradizionali.
Alle origini Beppe Grillo unisce la sua lunga maieutica ecologista – da cui discendono le cinque stelle (beni comuni, trasporti, internet, riciclo, energia verde) – alla protesta anti-politica. Cavalca lo stesso sentimento esploso ai tempi di Mani Pulite che all’inizio degli anni 2010 trova nuova linfa nelle malversazioni di tanti politici.
Grillo esprime un sentimento diffuso con la sua verve di artista. La sua satira trabocca di turpiloquio, giochi di parole, paradossi. Il tutto con la corporeità tipica dell’attore. Giovanna Cosenza in un acuto saggio su Comunicazione Politica rintraccia la lunga linea artistica di questo approccio, analizzando i comizi delle elezioni regionali siciliane del 2012 ricchi di “bisociazioni” (accostamenti di temi contradditori risolti dalla gestualità corporea), alternanze emotive, cambi repentini di registro.
Grazie alla turbinosa presenza del leader, il M5s arriva ad un soffio dalla vittoria nel 2013. Un successo troppo grande e troppo repentino che spaventò lo stesso Grillo, come confessò in una intervista a Marco Travaglio: “La liquefazione del sistema è talmente veloce che domani rischiamo di svegliarci e non trovarli più [i partiti]. E poi come si fa? Non siamo pronti a riempire un vuoto così grande”.
I tentativi di tenere le briglie di un gruppo di giovani scapestrati ed inesperti sono conditi di processi ed espulsioni, con l’effetto di ritagliare per Il M5s l’immagine di partito autoritario e antidemocratico. Tuttavia, la gestione verticistica del leader consente di mantenere abbastanza compatto il movimento e di proiettarlo verso nuovi successi: Roma, Torino, il referendum renziano del 2016, e infine le elezioni del 2018. Ma la morte di Gianroberto Casaleggio prima e il passo indietro di Grillo poi destabilizzano la nuova creatura. Nonostante il successo del 2018. Anzi, la crisi del M5s nasce proprio da lì. L’ingresso al governo schiaccia di responsabilità un movimento nato dalla contestazione.
Dal leader ai leader
Il M5s ha pagato inesperienza, arroganza indeterminatezza ideologica, inconsistenza organizzativa e, infine, l’assenza, volontaria, di una vera leadership. In questi anni ai Cinque stelle è mancata una leadership autorevole. Grillo, statutariamente ancora dotato di pieni poteri, è intervenuto solo nei momenti decisivi dell’alleanza con il Pd nel 2019, e poi del sostegno a Mario Draghi nel 2021. Ma questo suo ruolo catartico sembra ora in via di esaurimento. La trasformazione organizzativa in atto porterà, quanto meno, ad una diarchia tra il fondatore e Giuseppe Conte.
Questo implica che le modalità provocatorie e iperboliche, paradossali e spiazzanti di Grillo, ultima l’incontro con l’ambasciatore per smarcarsi dallo sventolio un po’ stucchevole di bandierine atlantiche, lasceranno il passo ai modi vellutati e diplomatici dell’ex presidente del Consiglio. La terza mutazione dei Cinque stelle , dopo l’ecologismo movimentista, orientato a sinistra, e l’antipolitica politicamente ubiqua, partorirà un partito “a vocazione governativa”, by-product dell’esperienza di governo, sigillata dal ruolo esercitato da Conte per quasi tre anni. Così si chiude il cerchio della esperienza pentastellata.
I furori iconoclasti sono serviti per conquistare una platea indefinita, persino amorfa, rancorosa rispetto al sistema, al regime, all’establishment, ai poteri forti. Ma una platea di questo tipo è, per definizione, incontrollabile. Solo una ideologia forte, come fu il socialismo nelle sue varie declinazioni, riuscì a dare coscienza di sé a questa massa inarticolata.
Il M5s ha perso per strada quel tipo di sostegno e ha smesso di cercarlo. L’esperienza di governo ha depurato il movimento di tanta parte del suo bagaglio barricadiero. Per cui oggi inevitabilmente ritorna al pragmatismo riformista delle origini ecologiste. Giuseppe Conte e i sempre più istituzionali Luigi Di Maio e Roberto Fico ne saranno gli interpreti naturali.
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