La campagna si è conclusa e non sarà ricordata. Si è tenuta nel segno del risentimento, l'ennesimo indizio di una classe dirigente sempre meno disposta a impegnarsi sulle questioni generali del paese e sempre più propensa a recintare il suo angolino. Una borghesia del disimpegno, una abdicazione collettiva. Serve qualcuno che unisca il paese diviso, nella costruzione dell'alternativa
Il primo a cogliere la coincidenza tra il voto europeo e il centenario del delitto di Giacomo Matteotti è stato Rino Formica, sei mesi fa, sulle pagine di “Domani”. Ieri Formica mi ha ricordato che in questi giorni sono anche gli ottant'anni dell'uccisione di Eugenio Colorni (30 maggio 1944), per mano della banda Koch, e di Bruno Buozzi, il 4 giugno 1944, alla Storta, fucilato con tredici prigionieri dai nazisti che fuggivano da Roma liberata. «Il fascismo è cominciato con l'assassinio di un deputato socialista e si è concluso con l'esecuzione di altri due socialisti», ha commentato Formica. «Per questo mi colpisce che oggi in tutta Europa le destre, pur divise tra loro, siano unite nel chiedere l'esclusione dei socialisti dall'Europa, dalla commissione e dalla maggioranza che governerà l'Unione nei prossimi cinque anni».
Ecco un modo di collegare passato e presente, voto europeo e voto italiano, un esercizio che dovrebbe essere scontato ma che in pochi sono riusciti a fare durante la campagna elettorale. Le urne sono aperte da ieri, se ne può parlare al passato, la campagna si è conclusa e non sarà ricordata. È stata la campagna elettorale delle ripicche, il tratto caratteristico della premier Giorgia Meloni, che si è detta offesa, ha offeso a sua volta, si è poi di nuovo offesa per la mancata solidarietà dopo le offese. Le ripicche muovono visibilmente il generale Vannacci, risentito con il mondo al contrario che non riconosce il suo valore. Le ripicche sono state sventolate apertamente da quei leader che si sono sentiti esclusi da faccia a faccia televisivi mai andati in onda. Le ripicche personali hanno certamente indebolito anche altri progetti politici, spingendo fino a divisioni autolesioniste e verso alleanze innaturali. E le ripicche hanno tenuto banco anche in una fetta più ampia di opinione pubblica.
È l'ennesimo indizio di una classe dirigente sempre meno disposta a impegnarsi sulle questioni generali del Paese e sempre più propensa a difendere e recintare il suo angolino. Una borghesia del disimpegno, qualunquista nel senso tecnico del termine, un partito della irresponsabilità nazionale che nelle prossime ore troverà modo anche di pontificare sulla disaffezione del voto, senza immaginare che complice di questa disaffezione sia anche il cedimento culturale di chi, per ruolo, dovrebbe provare a interpretare gli umori degli elettori. Una abdicazione collettiva.
Tutto questo aumenta il merito di chi ha preso sul serio il voto, con una campagna elettorale di sapore antico, l'incontro fisico con gli elettori, l'opposto della underdog che ancora ieri nelle immagini sui profili social di Fratelli d'Italia appariva quasi trasfigurata, in posa soprannaturale, assunta in cielo. Con la divisione sottolineata da Formica, tra destre e sinistra socialista, che ha segnato il Novecento e che condizionerà la costruzione dei prossimi equilibri europei. «Non possiamo consegnare l'internazionalismo ai sovranisti», ha detto Elly Schlein, segnalando che oggi le destre comunicano una omogeneità di visione che spesso le sinistre non riescono a trasmettere. Per l'Europa serve una nuova generazione di politici e di politiche europee di sinistra e di centrosinistra, una generazione contemporanea che superi sia la socialdemocrazia novecentesca sia la Terza via blairiana di trent'anni fa che continua a essere il solo angolo visuale di tanti opinionisti. E per l'Italia serve aprire la possibilità di una coalizione alternativa alle destre di governo.
La polarizzazione delle elezioni di oggi tra Meloni e Pd di Schlein è un primo passo, il risultato del voto dirà che le opposizioni sono tante e variegate e che alla fine vincerà chi ha la pazienza di costruire e di unirle. In tempi che non sono immediati, ma neppure biblici. Non va scartata l'ipotesi che il tavolo venga rovesciato e che il voto politico sia più vicino del 2027, se il governo non dovesse trovare il bandolo dei tanti fronti aperti.
A proposito di riferimenti del passato, in questi giorni la pubblicazione del carteggio tra Aldo Moro e Pietro Nenni (“Il carteggio ritrovato (1957-1978)”, Arcadia edizioni) permette di ricordare che la nomina di Altiero Spinelli a commissario europeo nel 1970 avvenne su indicazione del capo socialista con l'avallo del leader democristiano. Spinelli fu poi a sua volta candidato alla Camera e poi al Parlamento europeo come indipendente nelle liste del Pci di Enrico Berlinguer. È il segno di una classe dirigente politica che riusciva a trovare un punto di contatto in qualcosa di più grande. Oggi una leadership è grande se unisce i puntini, prima nel paese diviso, poi nella costruzione dell'alternativa. Oltre le ripicche e i risentimenti. E oltre anche il voto di oggi, che è soltanto il primo passo.
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