Il convento è povero, ma i frati sono ricchi, disse con una delle sue sintesi leggendarie Rino Formica nel 1983, per dire che anche quando il finanziamento pubblico dei partiti era florido la questione degli arricchimenti privati e delle scarse risorse comuni era avvertita dai politici più lucidi già quarant'anni fa. Oggi, però, siamo di fronte ad altro, è lo sfondo dell’inchiesta sul sistema Toti, ben descritto su “Domani” da Iannaccone e Petrillo nei loro articoli di ieri.

Dieci anni fa l'eliminazione dei rimborsi elettorali, voluta dal governo delle larghe intese presieduto da Enrico Letta, fu approvata dopo una potentissima campagna di opinione pubblica dall'alto («La politica è la prima azienda italiana con 180mila addetti, costa 4 miliardi l'anno», aveva detto Montezemolo nell'ultima assemblea da presidente di Confindustria, 24 maggio 2007) e dal basso (il Vaffa-day di Grillo è di quattro mesi dopo). Agevolata dallo scandalo di tesorieri di partito che avevano rubato perfino ai partiti da loro amministrati (Luigi Lusi della Margherita, Francesco Belsito della Lega) e dalla sordità verso chi chiedeva cambiamenti.

Dieci anni dopo, però, non c'è una politica più pulita e indipendente, ci sono le scalate nel vuoto di capi di gabinetto famelici, di politici sudditi, utilizzati da imprenditori e poteri di ogni tipo a chiamata, convocati a gettone. Si finanzia chi serve. Il sistema Liguria, al di là delle conclusioni delle inchieste, parla sul piano politico di un potere verticalizzato, senza partito e fuori dai partiti, pericolosamente contiguo a una ristretta oligarchia di magnati.

Per questo gli studi rivelano che i finanziamenti privati di aziende e imprese non vanno più ai partiti, ma ai singoli amministratori locali. Si muovono verso chi può intervenire sugli interessi in modo diretto, sui partiti di governo, mentre all'opposizione arrivano briciole. Sembra l'avverarsi della profezia contenuta nel capitolo 13 del Vangelo di Matteo: «A chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha».

Nel frattempo, il convento povero è diventata l'intera democrazia italiana. Povero di idee, di partecipazione, di dibattito pubblico. Povero di conflitto, anche. «La povertà di conflitto», ha detto ieri Zerocalcare su “Repubblica”, «genera società barbariche e chiuse, dove ogni espressione di critica diventa qualcosa da reprimere con la galera».

Il conflitto sociale è sostituito dalla messa in scena del conflitto, sui social e nei talk. Così l'Italia è diventata in questi anni il principale laboratorio nell’Europa occidentale della post-democrazia, di una democrazia privatizzata, che si trova nella «confortevole zona d'ombra del potere senza politica», di cui parla Marco Follini nell'ultimo numero di “Limes”.

Cinquant'anni fa, il 12 maggio 1974, il no del sessanta per cento degli italiani al referendum sul divorzio, il primo della storia (l'affluenza fu dell'87,7 per cento), fu sconfitto non solo il tentativo di cancellare la legge che aveva riconosciuto il diritto di sciogliere un matrimonio fallito, ma anche un progetto plebiscitario, dal segretario della Dc Amintore Fanfani che sognava un trionfo personale, e ancora di più dall'altro capo del sì al referendum, il segretario del Msi Giorgio Almirante.

Così lo intesero anche i cattolici democratici che votarono no al referendum perché «il successo della iniziativa abrogazionista potrebbe dare spazio a operazioni politiche pericolose per le libertà civili e per lo sviluppo della democrazia italiana» (firmato, tra gli altri, da Pietro Scoppola e Arturo Parisi, due fondatori del Partito democratico).

Mezzo secolo dopo le battaglie per le libertà civili e contro un nuovo strappo costituzionale si tengono di nuovo insieme. Il progetto meloniano di riscrittura della Costituzione piomba in un paese fragile, con un'opinione pubblica indebolita, una società civile frammentata, un vuoto della partecipazione. Con apparati che non hanno bisogno di elettori, con finanziamenti che non servono ad allargare i possibili consensi, ma a restringere a pochi o pochissimi la possibilità della competizione.

Di fronte a questo pericolo non basta dire no, e neppure la nostalgia del passato, ma è necessario operare uno strappo culturale, prendere sul serio l'idea che la politica in un sistema democratico è un bene comune, un bene di tutti, come la sanità pubblica, la scuola pubblica, l'informazione pubblica, cioè non assoggettata agli interessi privati degli editori.

Sul piano normativo, significa una battaglia per canali di finanziamento pubblici e trasparenti, anche su un piano europeo e non solo nazionale, regole di funzionamento della vita democratica dei partiti, lobby riconosciute e tracciabili. Sul piano politico, la battaglia è ancora più dura. Il convento non tornerà ricco, ma le nuove leadership democratiche hanno anche questo compito sulle spalle.

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