- Il presidente del Veneto con il governo Draghi alle spalle minaccia la Croazia che chiede protezione per il suo vino passito con un nome vagamente simile allo spumante italiano.
- Ma l’attenzione per il Prosecco è ormai largamente cresciuta oltre ciò che merita. Parliamo di una grande operazione industriale e di marketing: non inganniamoci.
- Per il resto, con poche eccezioni, il Prosecco è un vino industriale, con una tradizione inventata, prodotto in enormi quantità per il mercato estero: inutile spacciarlo per qualcos’altro.
Ho scoperto che il prosecco era diventato un vino alla moda quando un amico mi ha portato in un “prosecco bar” lungo i navigli, a Milano. Lo aveva appena aperto un vincitore del premio Campiello. Era il 2013.
Sono nato e cresciuto a Verona e per me il prosecco era sempre stato, essenzialmente, un umile ingrediente dello spritz. Lo trovavi in ogni bar, ma se volevi un vino prima di cena, c’era quasi sempre qualche scelta più accattivante e, soprattutto, più cool.
Famiglia borghese, per i brindisi di Natale e Capodanno usavamo lo spumante Ferrari, forse per una serie di affinità ancestrali con il Trentino, e non ricordo lo zio appassionato di vini arrivare alle cene con bottiglie di Prosecco d’annata.
Nel veronese non è uno dei vini che trovi alle sagre di provincia e, al di fuori dei bar, in genere lo trovavi in un supermercato, dove lo compravi a tre euro a bottiglia per affogarlo nell’aperol e nell’acqua gassata.
Tutto questo era destinato a cambiare quando sono entrato nel piccolo locale milanese, decorato con maioliche verdi e foratini, con il personale in bretelle e barba lunga pronto a raccontare vita e opere di ricercatissime bottiglie di questo vino spumante.
Quel giorno imparai che il Prosecco era diventato fico (figo, direbbe un veneto).
Un colosso industriale
Quasi dieci anni e circa tre miliardi di bottiglie dopo, il Prosecco non è soltanto un vino alla moda. È uno dei prodotti italiani di maggior successo al mondo e ha un giro di affari annuale che si misura in miliardi di euro. Lo bevono gli attori di Hollywood e gli influencer ci si fotografano su Instagram.
Più della metà delle bottiglie di Prosecco vengono esportate. Un quarto dell’intera produzione viene comprata ogni anno dal Regno Unito e finisce negli esclusivi bar londinesi frequentati dagli oligarchi di mezzo mondo. Marchi e stilisti famosi hanno brandizzato le loro linee di Prosecco, da Vera Wang a Hello Kitty.
L’industria è così ricca e importante che proprio in questi giorni il presidente del Veneto Luca Zaia, con tutto il governo Draghi alle spalle, ha minacciato fuoco e fiamme nei confronti della Croazia, che vorrebbe ottenere la tutela europea per il Prosek, un vino passito la cui assonanza è una minaccia di concorrenza intollerabile per il potente consorzio del Prosecco.
Nel 2013 non lo sapevo, ma le vendite di Prosecco erano iniziate a crescere in maniera vertiginosa già da cinque anni. La produzione è passata da poco più di 100 milioni di bottiglie nel 2008 agli attuali 700 milioni. Il vitigno con cui si realizza si coltiva in nove province e i suoi filari occupano in totale una superficie più grande della città di Milano.
L’altra cosa che non sapevo è che, in realtà, il prosecco non è affatto fico. Il discorso è semplice, quasi aritmetico. Se di una qualsiasi bevanda quintuplichi la produzione in un decennio, senza sostanzialmente battere ciglio, non si tratta più di un prodotto della tradizione artigianale, di alta gamma o di speciale qualità. Si tratta piuttosto di una gigantesca operazione industriale e di marketing.
E il Prosecco è anche e soprattutto questo. La Glera, l’uva che lo costituisce all’85 per cento, è un vitigno semplice, con un’uva che dura poco, ma che ha una spaventosa resa per ettaro. Il metodo di produzione è industriale: si fermenta in autoclavi, che possono contenere tonnellate di vino. Il tempo necessario è appena 20 giorni.
Quello che ne risulta, come scrive la Bbc nella sua aggiornata guida ai migliori Prosecchi, «è una bevanda molto migliore dello Champagne per eventi come i matrimoni» perché più «economica e leggera», meno «acida» e più «dolce» e quindi «più facile da bere». Una descrizione che, in effetti, si potrebbe applicare anche al Bacardi Breezer e che, di conseguenza, è altrettanto lusinghiera.
Il Prosecco e i veneti
In questi anni di successo spettacolare, la polemica contro il Prosecco è diventata quasi un genere letterario in cui si sono cimentati enologi e commentatori. Ma resta ancora qualcosa da dire, ora che la questione Prosecco è di nuovo su tutti i giornali.
E non solo perché lo scrivente di questa polemica è un veneto, quindi non inseribile nella mitologica categoria del “pregiudizio anti-veneto” (anche se, essendo di Verona, potrei comunque essere accusato di provenire dall’unico lembo di terra veneto-friulana in cui non si può produrre Prosecco).
Ma anche perché è ora di spezzare questo legame del tutto spurio tra un vino che è, in gran parte, industriale e mediocre, con la mitica “tradizione” del Veneto.
La “tradizione” del prosecco, infatti, è un caso da manuale di “invenzione della tradizione”. Anzi, di multipla reinvenzione, visto che la sua storia è stata più volte ripescata e rimaneggiata. Il pedigree totalmente inventato del Prosecco lo vorrebbe addirittura discendente di un antico vino romano citato da Plinio il vecchio.
In realtà, è un prodotto moderno, frutto di un metodo industriale di lavorazione dei vini frizzanti inventato a cavallo del Novecento. L’ironia più grande è che Prosecco, il luogo che avrebbe dato origine al mitico nome, è una frazione di Trieste dove di Prosecco non si produce nemmeno una bottiglia.
Quello che potremmo riconoscere come moderno Prosecco inizia a diffondersi negli anni Novanta e ha il cuore della sua produzione in Veneto, nel trevigiano, anche se per ragioni politiche e industriali, l’area del Prosecco copre tutto il Friuli e il Veneto, escluse le province di Verona e Rovigo.
Con il sostegno del potente Zaia, il Prosecco e la sua area di produzione sono diventate il nuovo mito del Veneto, un simbolo trendy e internazionale di una regione un tempo di successo, ma la cui grandezza industriale è ormai più un ricordo del passato che una prospettiva futura.
II culmine di questo processo è stata la trasformazione delle colline di Valdobbiadene in patrimonio dell’Unesco, forse il migliore colpo di astuzia veneta da quando, 90 anni fa, ad alcuni miei concittadini di Verona venne l’idea di inventarsi una casa di Giulietta con tanto di balcone appiccicando sulla facciata di un palazzo restaurato dei pezzi di marmo trovati in un’antica discarica.
Come la Casa di Giulietta non è il palazzo di un’antica dinastia medievale, così le verdi colline di Valdobbiadene non sono un paradiso di vigne ondulate e pittoreschi villaggi.
Sono una monocultura industriale dove ogni fazzoletto di terra è coperto da infiniti filari identici gli uni agli altri come lo sfondo infinito di un videogioco. Un’area che un tabellone pubblicitario sconsiglia di visitare nella stagione che precede la vendemmia per via delle nuvole di fitofarmaci e diserbanti disseminati nei campi dai trattori, dei cui effetti sulla popolazione si torna ciclicamente a discutere.
Settecento milioni di bottiglie di Prosecco non sono niente che ha a che fare con lo spirito o la tradizione veneta, non più di quanto la Coca Cola sia parte del bagaglio culturale degli abitanti di Atlanta, dove ha sede il suo quartier generale.
Il Prosecco e il suo consorzio sono né più né meno che una megacorporation, con tutti i problemi sociali, industriali ed etici che questo implica, comprese le connessioni con la politica e la classe dirigente veneta degli ultimi 25 anni, che li ha protetti e sostenuti.
Insomma, se i croati vogliono usare il marchio Prosek per il loro vino, che lo usino pure. E non solo perché il loro è un vino passito che non c’entra nulla con lo spumante italiano. Se vogliono, dovrebbero potersi prendere anche il nome Prosecco. È giunto il momento di condividere l’onore e l’onore che comporta produrre questo vino industriale più celebrato di quanto merita.
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