- L’elezione dei presidenti di regione senza un ballottaggio è un’eccezione. Paradossalmente, le regioni funzionano con le stesse regole dei comuni sotto i 15mila abitanti invece che con il doppio turno previsto per i comuni più grandi.
- Ma la letteratura mondiale sul tema indica che la presenza del doppio turno tende ad aprire il sistema politico, partitico, ed a renderlo più competitivo e più democratico.
- Il vulnus dell’elezione popolare diretta a un solo turno può essere rimediato, con una riforma che costerebbe poco in termini politici, sia al centrodestra che al centrosinistra.
Meglio una sola elezione oppure il doppio turno? Le cariche istituzionali monocratiche possono essere selezionate con elezione popolare diretta ricorrendo a due principali tipi di sistemi elettorali, quello maggioritario “semplice” e il doppio turno. In linea generale, tra diversi sottotipi, nel primo caso risulta eletto il candidato che ottenga più voti, senza nessun limite, nessuna soglia o percentuale minima; nel secondo caso, la legge prevede che si proceda al ballottaggio, ossia alla contesa riservata ai primi due classificati al primo turno allorché nessuno abbia raccolto ma maggioranza assoluta dei voti espressi.
Sì nei comuni, no nelle regioni
In Italia il sistema elettorale a “turno unico” è in vigore per le elezioni comunali nei municipi con popolazione inferiore a quindicimila abitanti, e per le regionali. Questo ultimo caso è assai peculiare perché, per diverse ragioni, politiche, accademiche e sociali, non si seguì la strada aperta per scegliere i sindaci nei comuni con popolazione maggiore di quindicimila abitanti nonché una parte, cospicua, dei parlamentari tra il 1994 e il 2001. Il prossimo appuntamento per l’elezione del Presidente della giunta regionale (non “governatore”!) in Lombardia e Sicilia apre dunque un tema troppo taciuto.
La letteratura mondiale sul tema indica che la presenza del doppio turno tende ad aprire il sistema politico, partitico, ed a renderlo più competitivo e più democratico. In presenza della prospettiva del ballottaggio anche i partiti “minori” tendono a presentare un proprio candidato, sia per negoziare tra i due turni, ma anche per avere maggiore visibilità e dare enfasi alle proprie proposte politiche e di governo. Anche in termini di rappresentanza, il doppio turno tende a offrire maggiore opportunità per ampliare la rappresentatività per vari concomitanti fattori.
Il ballottaggio consente all’elettore di esprimere un voto sincero, espressivo della propria appartenenza, per poi al secondo turno indurlo ad una stretta decisiva: tra il candidato meno lontano dalle proprie posizioni e meno sgradito. Optare per un voto strategico una volta che il proprio candidato sia stato escluso dalla competizione. Inoltre, potrà l’elettore valutare le proposte in campo ed orientarsi considerando le idee e le politiche dei competitori (voto prospettico) ovvero ponderare la scelta in base a quanto fatto dall’eventuale candidato uscente e comunque dal suo partito di appartenenza (voto retrospettivo).
Il sistema maggioritario a doppio turno limita anche la polarizzazione poiché tendenzialmente sono esclusi dalla vittoria gli esponenti “radicali”, mentre favorisce coloro che mostrino una postura presidenziabile ossia in grado di ampliare il consenso oltre il recinto dei propri elettori e militanti. Inoltre, forzando la scelta tra due candidati il ballottaggio evita, o limita fortemente, la vittoria di minoranze almeno sul piano dei voti, al netto cioè dell’astensione.
Presidenti con un terzo dei voti
I dati che emergono dalle elezioni regionali sono assai istruttivi ed interessanti. Tra il 1995 e il 2022 il candidato vincente ha in media raggiunto il 51 per cento dei consensi, con due significative eccezioni nel 1995 e nel 2015 allorché il valore è sceso attorno al 47 per cento, senza differenze significative dal punto di vista geografico né di affiliazione partitica dell’eletto. L’aspetto da non sottovalutare riguarda la percentuale di consensi che il candidato giunto in testa ha ottenuto calcolata su tutti gli elettori, ossia considerando astensione. Stante la crescente disaffezione elettorale, ne risulta che nel periodo esaminato i presidenti di regione sono espressione di una minoranza sebbene consistente: meno di un terzo di elettori.
Inoltre, la somma di voti raccolti dai due candidati più forti elettoralmente si attesta al 88 per cento, ma con una tendenza a decrescere negli ultimi tre lustri nonché ad un aumento della distanza in punti percentuali tra chi diventa presidente e il diretto avversario. Indicatori di crescente frammentazione partitica soprattutto intra-coalizione. Il valore minimo assoluto raccolto da un presidente eletto si è registrato nel Lazio nel 2018 (33 per cento, Zingaretti), seguito dalla Liguria nel 2015 (34 per cento, Toti), dal Veneto nel 1995 (38 per cento, Galan); valori che calano drasticamente se parametrizzati sull’astensione.
Lazio e Lombardia: alleanze?
In queste settimane si parla molto di candidature, alleanze, dinamiche elettorali, tradimenti e opportunità di scelte politiche, specialmente in Lombardia, ma anche in Lazio. Il punto da cui partire è il sistema elettorale che, appunto, elegge il presidente di Regione con sistema uninominale plurality. E come ogni sistema è sottoposto alla legge di M+1, ove “emme” è pari al numero di cariche da assegnare, e che indica quanti sono i candidati in grado di competere effettivamente per la vittoria. Si tratta cioè di solo due sfidanti, come confermato dalla aggregazione e polarizzazione di consensi attorno a due soli candidati che, come detto, si attesta a circa il 90 per cento in media.
Il tema delle alleanze è dunque mal posto, visto che in vincoli e le opportunità fornite dal sistema elettorale per le regionali sono chiarissime. Solo due candidati in grado di vincere, nessuna chance per “terze” forze comunque identificate. Non c’è spazio per corse identitarie, simboliche, di “bandiera”, e le alleanze vanno stipulate in anticipo, ossia prima del voto.
Le elezioni regionali sono un caso specifico rispetto alle elezioni comunali che dal 1993 funzionano e trovano apprezzamento anche presso l’elettorato. Il vulnus dell’elezione popolare diretta a un solo turno può essere rimediato, con una riforma che costerebbe poco in termini politici, sia al centrodestra che al centrosinistra.
Se, viceversa, proprio non si intendesse modificare il corrente assetto, andrebbe quantomeno valutata l’introduzione di soglie aggiuntive quali la partecipazione elettorale sopra il 50 per cento (in Emilia-Romagna nel 2014 votò il 37 per cento, in Calabria nel 2021 ha votato il 44 per cento, ne deriva che il presidente rappresenta meno di un quarto degli elettori) e/o raggiungere una percentuale importante di consensi 35-40 per cento in almeno metà delle province della regione.
In vista delle prossime consultazioni sull’asse tra Roma e Milano, con due regioni che rappresentano quasi il 30 per cento dell’elettorato italiano, i partiti – e i loro candidati – farebbero bene a non eludere le dinamiche e la meccanica del sistema elettorale.
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