Le identificazioni a tappeto – di cui sono stato personalmente testimone anche l’altra sera, alla stazione di Brescia – sono un segnale piccolo. Ma indicano una propensione e una tendenza
Bisogna saperli cogliere certi segnali prima che diventino normalità, o aprano la strada al peggio. In dicembre, il primo caso: il loggionista della Scala che viene solertemente identificato dalla polizia per aver gridato «viva l’Italia antifascista».
Quasi un remake dei gesti dei patrioti, quelli veri, quelli del Risorgimento, che approfittavano delle opere di Giuseppe Verdi per testimoniare la loro aspirazione a una Italia libera e unita.
Ora abbiamo il precipitarsi di una pattuglia di poliziotti a prendere le generalità di una dozzina di persone che si erano recate a testimoniare la loro vicinanza ad Aleksej Naval’nyj portando fiori alla targa che, a Milano, ricorda l’altra celebre dissidente russa, Anna Politovskaya.
Questi esempi non sono altro che la punta di un iceberg. Emergono infatti da un diluvio di identificazioni messe in atto dal governo Meloni. Sono state 54 milioni le persone a cui è stato chiesto di presentare i propri documenti nel 2023.
L’incremento di questa pratica rispetto agli anni scorsi è esponenziale: basi pensare che nel 2021 aveva coinvolto (solo) 35 milioni. Come mai? Per quale motivo? Cosa significa dover presentare i propri documenti mentre si assiste o si partecipa a un evento, o semplicemente si passeggia per strada?
Nei paesi anglosassoni tutto questo è inconcepibile tanto che non esiste nemmeno la carta di identità, considerata una violazione della privacy. Il tentativo di introdurla in Gran Bretagna non ha retto alle critiche: adottata nel 2006, è stata abolita nel 2010.
La tradizione continentale è diversa, e il caso italiano è peculiare proprio per il passato autoritario che ci trasciniamo dietro e che, non per nulla, sta riaffiorando.
Pulsione al controllo
La pulsione al controllo riflette la visione del mondo di quel periodo. Il cittadino deve essere sorvegliato e segnalato perché potenzialmente pericoloso per l’ordine costituito. Il fatto che la partecipazione politica sia una linfa vitale per le istituzioni democratiche non viene tenuto in alcun conto. Piuttosto, meglio sorvegliare ed eventualmente punire, per riprendere l’espressione di Michel Foucault nel suo lavoro sulla logica della prigionia.
Del resto, in coerenza con questa visione, uno dei primi atti del governo Meloni è stato quello di creare il reato di rave party prevedendo pene superiori all’omicidio colposo per chi organizzava questi raduni (diventati tristemente famosi per l’assalto di Hamas contro quello che si celebrava in Israele, il Supernova Sukkot festival) .
Riaffiora nelle iniziative del governo una pulsione all’irreggimento della vita pubblica, a una contrazione degli spazi di azione, perfettamente in sintonia con la cultura politica della destra, più o meno radicale.
In fondo, chi agisce nello spazio pubblico si muove in autonomia e spesso in contrasto con il potere politico. Quindi la partecipazione va scoraggiata creando un clima di controllo e supervisione.
Una propensione
In questo periodo la società italiana non dà segni di fermento. La percentuale di scioperi, ad esempio, è di gran lunga inferiore a quella registrata nei grandi paesi europei. Ma se le tensioni sociali si impennassero, l’animus repressivo del governo che occhieggia da questi indicatori potrebbe dispiegarsi appieno.
Le identificazioni a tappeto – di cui sono stato personalmente testimone anche l’altra sera, alla stazione di Brescia – sono un segnale piccolo. Ma indicano una propensione e una tendenza.
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