- L’ordinanza apre uno squarcio sulle coperture e sugli aiuti dell’ambiente familiare.
- Riguarda la sorella, non le coperture più ampie di cui ha goduto nella borghesia mafiosa che lo ha coccolato e protetto lungo la sua carriera di latitante.
- Ci raccontano, queste pagine, che i mafiosi usano normalmente i pizzini come hanno fatto Provenzano, Antonio Vaccarino, Salvatore Lo Piccolo.
Un giallo, un giallo in piena regola. Certo, la prosa è quella che è, lo scritto di un atto giudiziario che ha un linguaggio a tratti arido e a volte di difficile comprensione. Ma è una trama piena di sorprese e di rivelazioni lo scritto dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Palermo Alfredo Montalto con la quale ordina l’arresto di Rosalia Messina Denaro, sorella del più noto Matteo.
In mano ad uno sceneggiatore o ad un giallista si trasformerebbe in un formidabile giallo. La sola differenza con il giallo classico è che prima di iniziare a leggere sappiamo già chi è il colpevole. Ma la lettura non perde il suo fascino.
C’è tutto l’essenziale nell’ordinanza. Ci sono i carabinieri che entrano notte tempo in casa della sorella per posizionare una microspia autoalimentata e avendo deciso di collocarla dentro una gamba cava di una sedia di alluminio, si imbattono in un pizzino nascosto all’interno che viene subito fotografato e riposto nella sede dov’era stato scoperto.
Siamo al 6 dicembre 2022. È la scoperta, un “fortuito rinvenimento” lo giudica il gip, di un appunto relativo alle condizioni di salute di un individuo al momento non identificato.
Per il posto dove era stato rinvenuto, il sospetto che riguardasse Matteo Messina Denaro era molto forte. Del resto un pizzino del genere perché doveva trovarsi nascosto così abilmente se non riguardava il fratello?
I carabinieri del Ros a questo punto iniziano a seguire la pista sanitaria. Lo fanno anche perché dalle intercettazioni «svolte sul contesto familiare del latitante», le sorelle in particolare, erano emerse delle indicazioni che potevano riguardare «malattie croniche che interessavano il colon». Era un’indicazione formidabile per iniziare a seguire una pista precisa.
E infatti, «proprio partendo dalle indicazioni sulla patologia sufficientemente precise e dalle date in cui l’ammalato aveva subito più interventi chirurgici, la polizia giudiziaria, attraverso riservatissimi accertamenti prima presso il ministero della Salute e poi su banche dati sanitarie nazionali giungeva agevolmente all’identificazione del maschio adulto di età prossima a quella del latitante che si era sottoposto a detti interventi, cioè apparentemente Andrea Bonafede».
Un lavoro certosino per seguire un fantasma, un incrocio, noioso o affascinante, a seconda dei casi, di dati riservatissimi che il ministero della salute conserva per monitorare le patologie oncologiche e la relativa spesa, porta piano piano ad avvicinarsi al fantasma.
Perché un fatto era certo seguendo altri accertamenti: il “paziente oncologico non corrispondeva alla persona fisica censita”. Andrea Bonafede e il fantasma non erano la stessa persona.
C’era bisogno di una prova in più, la prova regina che si trovò soltanto nel momento in cui risultò prenotata la visita alla clinica La Maddalena il 16 gennaio 2023, il giorno della cattura di Messina Denaro.
E la prova, non sapendo quale fosse il volto del latitante, fu trovata grazie ad un’infermiera a cui è stato chiesto chi fosse Andrea Bonafede che aveva una prenotazione a suo nome; e l’infermiera rispose: è lui, indicando Messina Denaro che per lei era Bonafede
Un racconto intrigante che svela un’indagine condotta senza collaboratori di giustizia, con i metodi dell’indagine classica che analizza i dati di fatto, li collega tra di loro, fa ipotesi e cerca conferme, che utilizza le intercettazioni come strumento d’indagine efficace.
Una ricostruzione che smonta l’ipotesi della consegna del latitante, idea che si giustifica solo con la convinzione che un latitante non possa essere catturato se non a seguito di una trattativa.
Fortuna e coperture
Che un’indagine accurata, accompagnata per di più da un pizzico di fortuna, possa essere solo e soltanto un’indagine accurata, non è contemplata da alcuni.
E invece non è così. Ci sono catture di latitanti, centinaia e centinaia negli ultimi anni, fatte da un paziente lavoro di poliziotti, carabinieri, uomini della guardia di finanza.
La narrazione delle deviazioni, degli accordi sottobanco, delle infedeltà è tutta un’altra storia che in parte è stata raccontata e in parte è da raccontare.
L’ordinanza apre uno squarcio sulle coperture e sugli aiuti dell’ambiente familiare. Riguarda la sorella, non le coperture più ampie di cui ha goduto nella borghesia mafiosa che lo ha coccolato e protetto lungo la sua carriera di latitante.
Ci raccontano, queste pagine, che i mafiosi usano normalmente i pizzini come hanno fatto Provenzano, Antonio Vaccarino, Salvatore Lo Piccolo.
I mafiosi adottano tecniche di segnali, apparentemente innocui e di difficile decodificazione, come gli stracci colorati collocati in determinati posti per indicare se la via sia libera o no; hanno persone che sono in grado di mettere in guardia il latitante sull’esistenza di telecamere di vecchia e di nuova generazione.
Infine non poteva mancare il manifesto ideologico del mafioso che ci rimanda l’acre sapore del più becero filoborbonismo: «Essere incriminati di mafiosità lo ritengo un onore. Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie, trattati come se non fossimo della razza umana, siamo diventati una etnia da cancellare. Eppure siamo figli di questa terra di Sicilia, stanchi di essere sopraffatti da uno Stato prima piemontese e poi romano che non riconosciamo. Siamo siciliani e tali volevamo restare. Hanno costruito una grande bugia per il popolo. Noi il male loro il bene. Hanno affamato la nostra terra con questa bugia».
Un giallo a prima vista. Magari lo fosse. Purtroppo è la tragica realtà criminale di un pezzo d’Italia.
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