Come qualunque medicina salva-vita, anche la transizione ecologica – salva-vita del nostro benessere presente e futuro di umani – produce fastidiosi effetti indesiderati. Uno dei principali si chiama greenwashing: significa che molte imprese e anche soggetti pubblici per ragioni di marketing e di consenso – il green “tira” sempre di più – danno alla loro comunicazione una pennellata di verde cui non corrisponde alcuna sostanza, o peggio che serve a nascondere effetti negativi recati all’ambiente.

Greenwashing, appunto, letteralmente «strategia di comunicazione o marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie realtà, cercando di occultare l’impatto ambientale negativo».

Al greenwashing – a come riconoscerlo, a come contrastarlo aiutando i cittadini a distinguere il vero green da quello “farlocco” – è dedicato un dettagliato Rapporto che sarà presentato venerdì 27 maggio in uno degli eventi centrali del Festival dell’economia circolare e della transizione ecologica in corso ad Alba (per seguire l’evento in diretta streaming e per consultare il programma di tutto il Festival: www.circonomia.it).  

Nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, molti governi e autorità di controllo stanno approntando linee guida per arginare e sanzionare il diffondersi del greenwashing. Proprio in questi giorni la Sec (l’autorità di vigilanza della Borsa degli Stati Uniti) ha emanato una prima bozza di linee guida per definire le informazioni che i fondi d'investimento devono fornire quando qualificano le loro offerte con termini quali “Esg”, “sostenibile” o “low-carbon”.

Obiettivo ambizioso, basti pensare che il patrimonio globale dei fondi “sostenibili” ammontava negli USA a ben 2,77 miliardi di dollari alla fine del primo trimestre del 2022, in crescita rispetto a 1 miliardo di dollari nel 2019  (fonte: Morningstar).

Le pratiche

Le pratiche più comuni utilizzate nel greenwashing sono: a) la comunicazione scorretta, reticente ed omissiva che utilizza un linguaggio vago e non preciso; b) l’abuso di slogan green e parole  e immagini “bucoliche”; c) la vera e propria mistificazione delle performance ambientali legate a un’azienda o a un prodotto.

Come detto, crescono di continuo gli esempi di greenwashing sanzionato. E le sanzioni espongono le imprese che ne sono colpite a un duplice danno: sia reputazionale che  economico, tanto più rilevante nel caso di aziende quotate nei mercati finanziari per le quali comportamenti conclamati di greenwashing possono determinare contraccolpi diretti sulla capitalizzazione.

Casi di greenwashing sanzionato si sono registrati anche in Italia: si va dalla multa inflitta nel 2020 a Eni (5 milioni di euro) dall’Antitrust per la diffusione «di messaggi pubblicitari ingannevoli utilizzati nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante Eni Diesel+» (a seguito di una denuncia di Legambiente), ad aziende di acque minerali multate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato per affermazioni non veritiere che lasciavano credere che le bottiglie di plastica fossero tutte in materiale riciclato e che le emissioni di CO2 fossero interamente compensate piantando alberi, fino a una sentenza del Tribunale di Gorizia che ha condannato un’azienda tessile, la Miko, perché nella sua pubblicità utilizzava espressioni ingannevoli come  «scelta naturale», «amica dell’ambiente», «la prima e unica microfibra che garantisce eco-sostenibilità durante tutto il ciclo produttivo», «microfibra ecologica».

Le stoviglie in plastica

©Volodymyr Hryshchenko

Una vicenda analoga e recentissima, ancora non conclusa, riguarda poi i piatti e le stoviglie in plastica: una Direttiva europea recepita in Italia ne vieta la commercializzazione se non realizzati in materiale biodegradabile e compostabile, e però vi sono supermercati che continuano a venderli etichettandoli con una dizione - “riutilizzabili” – che è un capolavoro di greenwashing.  

Smascherare il greenwashing, spesso basato su vere e proprie fake-news, conviene non solo a cittadini, consumatori, ecologisti. È anche un interesse essenziale di quella schiera sempre più folta di imprese che eco-friendly lo sono davvero e che subiscono la concorrenza sleale di competitori “falsi-green”. Sconfiggerlo è un passaggio obbligato per dare senso, futuro, piena efficacia all’idea stessa della transizione ecologica.

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