Mercoledì scorso l’istituto statistico francese, l’INSEE, ha pubblicato una stima dell’evoluzione dei redditi in Francia  durante il primo anno di pandemia. La conclusione principale del rapporto è che nonostante la crisi sanitaria il tasso di povertà monetaria nel 2020 è rimasto stabile al 14,6 per cento della popolazione.

9,3 milioni di persone in Francia hanno un tenore di vita inferiore a 1063 euro al mese, una soglia corrispondente al 60 per cento del reddito mediano.

Per questa conclusione, sorprendente e contraria a stime che circolavano da mesi (che parlavano di un milione di nuovi poveri), la nota ha avuto molta risonanza prestandosi a considerazioni che vanno al di là del caso francese.

Le stime e la tendenza

La cifra in se non va presa alla lettera, per una serie di limiti metodologici evidenziati dagli autori stessi e addirittura dal presidente dell’INSEE in un post: intanto, la stima sull’evoluzione dei redditi si basa su microsimulazioni a partire dalle ultime dichiarazioni dei redditi disponibili (2019), anche se questo non pone particolari problemi, perché il metodo si è rivelato affidabile in passato.

Tuttavia, proprio perché basata sulle dichiarazioni, la stima esclude l’economia informale e alcune tipologie di lavoro (per esempio degli studenti) che sono esenti da tassazione sul reddito.

Inoltre, il campione dell’INSEE non copre le persone che vivono in comunità (come residenze studentesche, case di riposo, etc.); ora, la perdita di redditi non dichiarati al fisco (ad esempio per i lavori domestici o i lavori saltuari) è stata sicuramente significativa durante il primo lockdown.

Infine, ma non da ultimo, la povertà è per definizione multidimensionale e non può essere ridotta al solo reddito: gli autori notano come la metà di coloro definiti poveri in termini di reddito non si dichiarino in condizioni di privazione materiale e, viceversa, che più della metà di coloro che si dichiarano in condizioni di privazione materiale hanno redditi superiori alla soglia di povertà monetaria.

Proprio a causa di tutte queste limitazioni, non è sorprendente che altri indicatori, come ad esempio il maggior ricorso ai banchi alimentari, mostrino un aumento della povertà assoluta.

Insomma, se è vero che la crisi sanitaria non ha spinto una parte significativa della popolazione al di sotto della soglia di povertà nulla ci dice che la situazione dei 9,3 milioni di poveri in Francia non è peggiorata.

Tuttavia, anche se le cifre saranno probabilmente riviste al rialzo quando i dati sui redditi 2020 saranno disponibili, l’impatto della pandemia sulla povertà è stato inferiore a quanto ci si potesse attendere vista la severità della crisi. Questa notizia non può che essere accolta con soddisfazione.

Lo Stato protettore

La stabilità del tasso di povertà può essere attribuita al massiccio sforzo del governo francese (come degli altri paesi europei) per sostenere i redditi. Nel caso francese è stata particolarmente efficace l’estensione della cassa integrazione (l’activité partielle) alla quasi totalità dell’economia (che solo nel 2020 è costata circa 27 miliardi). Insieme agli aiuti eccezionali alle famiglie più povere (sussidi per la casa e per i minori a carico, ad esempio) e a misure a sostegno delle imprese il quoi qu’il en coute, versione autarchica del whatever it takes di draghiana memoria, ha assorbito il colpo e protetto lavoratori salariati, piccole imprese e lavoratori autonomi.

Anche per l’Italia la cassa integrazione ha svolto un ruolo centrale nel limitare l’aumento della povertà, come documentato da Maurizio Franzini e Michele Raitano su queste pagine.

Ma, in Francia, come da noi e altrove in Europa, dalle maglie della rete protettiva dispiegata dai governi sono sfuggite proprio quelle categorie che la stima dell’Insee non ha potuto catturare: microimprese, lavoratori in nero o a tempo parziale, piccoli artigiani, studenti, pensionati; categorie nelle quali, peraltro sono sovra rappresentati alcuni gruppi particolarmente fragili: i giovani, ovviamente, ma anche le donne e gli immigrati.

Contro la precarietà

È per questo si dovrebbe evitare di esultare troppo per il relativo successo nel contenere l’impatto della pandemia sui redditi, che maschera l’assenza di misure strutturali per contrastare la tendenza di lungo periodo all’aumento della precarietà e alla pauperizzazione di interi segmenti della società e del mercato del lavoro.

Anzi, la crociata ripartita subito dopo la parentesi della pandemia contro l’assistenzialismo non è altro che la faccia (teoricamente) presentabile della battaglia di lungo periodo contro la protezione sociale, che invece dovrebbe essere ripensata e rafforzata per adattarla al nuovo mondo del lavoro.

In Francia come da noi, su pensioni, sostegno ai redditi, mercato del lavoro, è  stata riaccesa la miccia della guerra tra poveri, un’arma di distrazione di massa per togliere dall’agenda politica il tema della disuguaglianza.

Al contrario, è utile ricordare che prima della pandemia infuriava il dibattito sulla riduzione della tassazione per capitale e redditi più elevati.

Proprio in Francia, le prime misure del presidente Macron nel 2017 gli avevano valso l’etichetta di “presidente dei ricchi”: il tasso di povertà della cui stabilità al 14,6 per cento oggi ci si inorgoglisce, era al 14,1 per cento nel 2017, all’inizio del mandato (e al 12,5 per cento nei primi anni Duemila).

 Le idee per invertire la tendenza non mancano e, come la povertà e la precarietà, sono multidimensionali. Si pensi, per il nostro paese, alle proposte del Forum Disuguaglianze Diversità che vanno dal ripensamento delle norme sugli appalti e degli incentivi e alle imprese per premiare comportamenti virtuosi in tema di tutela del lavoro e dell’uguaglianza di genere, al trattamento di istruzione e proprietà intellettuale come beni comuni, a nuove politiche per ridurre le disuguaglianze territoriali, al ripensamento del diritto del lavoro e della contrattazione collettiva, fino ad arrivare alla riforma del sistema fiscale per migliorare la giustizia sociale e far ricadere sulle spalle di chi inquina di più il peso della transizione ecologica.

Quello che sembra invece drammaticamente mancare, quasi ovunque in Europa, è un vettore politico che metta al centro dell’agenda dei prossimi anni il tema della distribuzione del reddito.

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