- Si discute sempre più insistentemente della crisi della Lega e, soprattutto, della crisi della leadership di Matteo Salvini. La si attribuisce in primo luogo agli errori del leader, alla gestione personalistica del partito.
- La Lega di Salvini è nata dentro la dissoluzione del partito creato intorno a Umberto Bossi. Quello che ora viene spesso richiamato anche dai media orientati a sinistra con rispetto e quasi con nostalgia.
- Se il degrado organizzativo interno a cui era giunta la Lega ha consentito a Salvini di farsi avanti, sono state tuttavia le condizioni esterne a favorire la torsione sovranista. Salvini è stato lesto a intercettare il malcontento.
Si discute sempre più insistentemente della crisi della Lega e, soprattutto, della crisi della leadership di Matteo Salvini. La si attribuisce in primo luogo agli errori del leader, alla gestione personalistica del partito, poi anche al governo Draghi che avrebbe reso più difficili le mosse azzardate a cui era abituato in passato. C’è qualcosa di vero in tutto questo, ma non sta lì la spiegazione più convincente.
La Lega di Salvini è nata dentro la dissoluzione del partito creato intorno a Umberto Bossi. Quello che ora viene spesso richiamato anche dai media orientati a sinistra con rispetto e quasi con nostalgia, mettendo tra parentesi tutte le invenzioni connesse all’ideologia padana insieme alle varie patologie dell’organizzazione interna che l’avevano contrassegnata non solo nella fase della decadenza, anche fisica, del fondatore. Patologie tra le quali era già ricorrente la tendenza a convocare i congressi fuori tempo massimo o a svolgerli in maniera irrituale.
Se il degrado organizzativo interno a cui era giunta la Lega ha consentito a Salvini di farsi avanti, sono state tuttavia le condizioni esterne a favorire la torsione sovranista. Salvini è stato lesto, perché tutto sommato soggettivamente predisposto, a intercettare il malcontento prodotto dalle politiche di austerità adottate dalle istituzioni europee e in Italia dal governo Monti a ridosso della Grande recessione.
Ma soprattutto, è stato il più aggressivo interprete dell’ondata di malumore anti immigrati prodotto dalla crisi dei rifugiati del 2015, negli anni immediatamente successivi. Aveva le credenziali giuste, in quel momento, e il cinismo necessario per sfruttare l’opportunità, con tutti i mezzi comunicativi messi in moto nello stesso frangente per emulazione delle campagne trionfali sulla Brexit e pro Trump.
Salvini che aveva preso un partito ricrollato nel 2013 al 4 per cento, lo porta al 18 per cento alle politiche di cinque anni dopo e oltre il 30 alle europee del 2019. Poi la hybris scatenata da cotanta vittoria lo ha indotto fare calcoli sbagliati sulla ineluttabilità delle elezioni anticipate e sulla potenza della sua macchina da guerra da social media.
Lo spiazzamento
Ma, soprattutto, lui e il progetto del partito sovranista, sono stati spiazzati dal drastico cambiamento delle priorità che la pandemia ha impresso nella testa degli elettori. Una buona misura di questo cambiamento e al tempo stesso una robusta spiegazione della parabola salviniana, sta nella serie storica dei dati raccolti per conto di Eurobarometro (l’agenzia statistica dell’Ue) sulle due questioni percepite come più urgenti al momento dell’intervista nel rispettivo paese.
Il primo grafico riproduce la percentuale in cui ricorre ciascun tema, dal 2005 a oggi, nelle risposte degli intervistati italiani. La curva verde mostra come proprio negli anni in cui prende avvio la segreteria Salvini, l’immigrazione torna a essere percepita come una emergenza, seconda solo alla disoccupazione. In quello stesso arco temporale, in particolare nel 2017, anno chiave della svolta a destra della Lega, gli altri temi più sentiti sono: pensioni, terrorismo (di matrice islamica), tasse.
La pandemia ha, almeno fino ad ora, ribaltato il quadro. La necessità di uscire dalla crisi sanitaria e di rimettere in moto l’economia ha messo in secondo piano quasi tutto il resto. La risposta questa volta espansiva dell’Ue ha fatto ricrescere la fiducia nelle istituzioni europee a livelli che non si registravano da decenni e affievolito le voci euroscettiche. L’enorme quantità di risorse pubbliche pompate nell’economia ha ridotto le rivolte contro il fisco.
Assopita la lotta anti Europa, anti immigrati, anti tasse, l’unico tema che divide, alimenta i talk show e mobilita odiatori è il green pass. In tutto questo, che Salvini abbia perso la direzione, non è stupefacente. Semmai stupisce che nonostante le priorità si siano spostate su temi più congeniali ai partiti di sinistra, l’equilibrio elettorale macro rimanga sostanzialmente inalterato, come di tanto in tanto conviene ricordare, a fronte degli annunci settimanali su fantomatici sorpassi.
Il secondo grafico riporta le intenzioni di voto rilevate, in media, da tutti i sondaggi pubblicati in ciascun mese dall’inizio del 2020. Pd e M5s vengono stimati oggi più o meno allo stesso livello a cui erano esattamente due anni fa. L’aggregato formato da tutte le liste in qualche modo riconducibili al centrosinistra più i Cinque stelle raccolgono messi insieme, più o meno quanto Lega, FdI e Forza Italia.
Il grosso di quello che ha perso Salvini lo ha guadagnato Giorgia Meloni, la cui ascesa si è fermata però ad agosto del 2021. Quelli che ha continuato a perdere si sono ritratti nell’astensione, nei non so, nell’attesa di un qualcos’altro ancora non identificato. Quindi, si potrà davvero dire se il salvinismo è al capolinea solo quando l’effetto anestetico del combinato pandemia/Pnrr sui conflitti sarà svanito.
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