Forse qualche psicanalista sarebbe in grado di spiegare la ragione per la quale risalgono all’infanzia certe nostre profonde inclinazioni. Schemi mentali, parametri di giudizio che poi ci portiamo appresso per tutta la vita. Nel mio caso, la definizione del peccato mortale scolpita nel vecchio catechismo di Pio X.
Esso ricorreva (ricorre?) in presenza di tre condizioni: materia grave, piena avvertenza, deliberato consenso. Suppongo affondi le radici qui la mia istintiva severità nel giudizio a proposito dei cosiddetti “moderati” collaborazionisti, coloro che consapevolmente prestano la propria opera per cause sbagliate. Soggetti non sprovveduti, cui è difficile applicare l’attenuante longanime concessa da Gesù ai suoi persecutori: “non sanno quello che fanno”. Dunque doppiamente censurabili. Cooperano a cattive azioni, ma vi partecipano solo a metà o comunque non assumendosene intera la responsabilità. Moderati o ignavi?
Potrei fare molti esempi e qualche nome. Quelli cui riesce, con abili e studiati distinguo, di vantare credito nella buona società. Tre casi tra i tanti: Crosetto, Giorgetti e, su tutti, il capofila della fattispecie, l’insuperabile e insuperato Gianni Letta. Persone associate a materie appunto “gravi” (non veniali), ma circa le quali hanno cura di rappresentarsi come estranee, distratte o, al più, partecipi solo marginalmente. All’insegna di una programmatica etica dell’irresponsabilità. Alla lettera: non-responsabilità.
Giorgetti, da trent’anni calca la scena politica, numero due di tre Leghe diverse e persino opposte, da Bossi a Maroni a Salvini; egli scopre lo sfondamento prodotto dal superbonus dei 110 dopo anni da ministro dell’economia; millanta amicizia con Draghi ma non proferì parola quando il suo leader Salvini lo sfiduciò, preservando la postazione nel governo presieduto da chi lo avversava dall’opposizione; un draghiano vice-capo nel partito che candida Vannacci; che sigla il nuovo patto di stabilità Ue ma non fa una piega quando a Strasburgo tutti i partiti di governo, a cominciare dal suo, si rifiutano di approvarlo. Quasi fosse un passante.
Oppure Crosetto, che si spaccia per moderato e antifascista, pur essendo cofondatore di Fdi, un partito post-fascista la cui leader e il cui gruppo dirigente – coerentemente e tenacemente - si rifiutano di professarsi antifascisti (e non si capisce la testardaggine di chi si ostina a chiedere loro di mentire professandosi ipocritamente per ciò che non sono!); che vanta un passato democristiano prima e berlusconiano poi. E del berlusconismo - che solo gli immemori, sovvertendo la realtà, raccontano come improntato al moderatismo - si porta appresso il retaggio del conflitto di interessi da ex lobbista dell’industria delle armi e si inalbera con il Domani solo perché ne fa documentata, oggettiva memoria.
Sino alle vette del sommo maestro in materia Gianni Letta. Maggiordomo del potere, prima vaticano-andreottiano e poi, per trent’anni, berlusconiano. Consumato distillatore di alchimie politiche, ispiratore e regista di nomine e di intese trasversali non sempre trasparenti. Uomo che ha sempre goduto della fiducia del Cavaliere e che, fedelmente al suo fianco, è passato indenne attraverso le mille e una traversie, giudiziarie e non, del suo amato leader. Non proprio un esempio preclaro di senso delle istituzioni, di osservanza delle leggi e dell’etica pubblica.
Figure che hanno in comune appunto l’abilità di saper navigare tra i marosi, di cooperare, consapevoli e servizievoli, con chi il potere lo esercita, talvolta senza ritegno, ma sempre con la cura di non sporcarsi troppo le mani. Di più: facendosi passare per uomini dediti al servizio delle istituzioni. Con l’establishment politico, economico, mediatico generosamente disponibile a dare loro credito.
O, più esattamente, a fingere di crederci per lucrarne vantaggi. E’ da domandarsi se una tale dissimulazione sia da ascrivere alla radice di un certo costume italico. Un paese, il nostro, che non ha conosciuto la riforma protestante e il suo corredo, quello di una concezione severa degli obblighi dettati dall’etica e dalla coscienza e, per converso, incline a una malintesa indulgenza (cattolica?) verso le umane debolezze. Più le proprie che quelle degli altri.
Nella nota pagina in cui Gramsci condanna gli indifferenti si legge: “Odio gli indifferenti perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto”. Sottolineo: anche di ciò che non hanno fatto. In gergo catechistico: peccati di omissione.
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