- I rabdomanti dell’elettorato moderato e d’opinione sono animati dalla convinzione che in tanti soffrano nello schierarsi da una parte o dall’altra.
- In realtà, sono ancora preda di due illusioni ottiche.
- Solo chi offrirà risposte nette, tranchant e magari anche demagogiche attirerà l’attenzione di una opinione pubblica at large, e non di minoranze acculturate, economicamente tranquille.
La frammentazione partitica era stata ridotta al minimo dal risultato delle urne di quattro anni fa quando solo sei partiti (M5s, Partito democratico, Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Liberi e Uguali) ottennero seggi nelle liste uninominali dell’abominevole legge elettorale Rosato.
In parlamento divisioni e scissioni di ogni genere per dissidi politici, ripicche, interessi personali hanno portato a triplicare quel numero: attualmente sono 17 le componenti alla Camera.
Molte di queste formazioni, e altre che sono alle viste, intendono porsi “al centro”.
L’illusione del centro
Questi rabdomanti dell’elettorato moderato e d’opinione sono animati dalla convinzione che in tanti soffrano nello schierarsi da una parte o dall’altra e che disdegnino i conflitti gladiatòri. In realtà, sono ancora preda di due illusioni ottiche.
La prima è quella dei sondaggi che presentano una maggioranza di elettori che tende a posizionarsi al centro nello spazio politico destra-sinistra.
Invece, per molte ragioni legate alle metodologie dei sondaggi, la collocazione al centro è spesso un rifiuto di collocarsi, una scelta rifugio, equivalente a quella di chi afferma di non riconoscersi da nessuna parte.
La difficoltà o il rifiuto di posizionarsi chiaramente spinge tanti verso il centro gonfiando artificialmente questa area.
La seconda viene da una visione ormai vecchia di cinquant’anni, ma sempre ripresa con una impressionante pigrizia intellettuale, per cui “si vince al centro”.
I sistemi bipolari anglosassoni degli anni cinquanta riflettevano questa dinamica centripeta. Ma è stato un momento eccezionale: era l’epoca del consenso keynesiano e della crescita dei trenta gloriosi.
Dopo il Sessantotto tutto questo è andato incrinandosi e poi il trionfo del neo-conservatorismo di Ronald Reagan e Margareth Thatcher ha mandato tutto all’aria. fino ai loro recenti epigoni del populismo trumpiano.
Questione di vicinanza
Il modello che oggi spiega più accuratamente le scelte degli elettori è invece quello della “vicinanza” ad un partito, vale a dire quanto un partito riesce ad avvinghiare a sé i cittadini. E vi riescono con più efficacia se presentano politiche chiare, nette, precise. Ancora una volta, Donald Trump insegna.
Ovviamente queste sono esemplificazioni di dinamiche di comportamento elettorale.
Poi giocano mille altri fattori nella decisione di votare per una lista o l’altra o, anche di non votare (che è diventato il vero problema su cui interrogarsi ora).
Da questa lunga premessa discende che la frammentazione che vediamo nel nostro parlamento, e soprattutto il vorticoso movimento che si fa da parte di personaggi in cerca di partito, rischia di non trovare grande ascolto.
Tutti coloro che si agitano, da Carlo Calenda a Beppe Sala, da Giovanni Toti a (forse) Luigi Di Maio, passando per l’incontenibile Matteo Renzi, pensano che vi sia un ricco bottino da spartirsi.
Nessuno ricorda l’esito di chi si era presentato con grandi credenziali all’appuntamento con l’elettorato di opinione nel 2013: Mario Monti e la sua Scelta civica.
Pur circondato dall’aura del salvatore della patria grazie alle sue riforme nell’inverno 2011-12, Monti non arrivò nemmeno all’11 per cento.
Poco dopo il suo partito si sciolse come neve al sole, a dimostrazione della mancanza di un vero collante politico-ideale. Mentre nessuno aveva visto che il M5s avrebbe raccolto un quarto dei consensi tanto da arrivare in prima posizione sul territorio nazionale.
Cosa è cambiato da allora nel nostro panorama politico? Perché oggi ci sarebbe più disponibilità ad una offerta politica moderata-centrista?
La risposta a molti sembra ovvia: perché vogliono sostenere ancora Mario Draghi, o almeno al sua agenda, caratterizzandosi implicitamente come suoi figliocci. Il tempo che ci separa dalle prossime elezioni è molto, e può succedere di tutto.
Più economia che guerra
A meno di evoluzioni drammatiche – coinvolgimento diretto della Nato e del nostro paese nel conflitto ucraino, o peggio – la guerra di Vladimir Putin non determinerà le scelte degli italiani.
Sarà l’economia - i salari, il potere d’acquisto, le bollette, l’inflazione - a dominare l’agenda dei cittadini.
In un contesto di ansia collettiva e di lontananza della politica, perché al di là di ogni stima per la persona questo è il messaggio che il presidente del consiglio veicola, difficilmente piccoli partiti “ragionevoli” e moderati possono sfondare il tetto di cristallo della diffidenza generalizzata degli elettori.
Solo chi offrirà risposte nette, tranchant e magari anche demagogiche attirerà l’attenzione di una opinione pubblica at large, e non di minoranze acculturate, economicamente tranquille e concentrate nelle Ztl.
Chi oggi è meglio attrezzato per questo scopo e ciò per raccogliere le spoglie dei Cinque stelle e del non voto: l’elegante Di Maio, a cui vanno i complimenti per il suo ottimo inglese, il pragmatico Sala, l’irruente Calenda, il benpensante Toti? O l’unica opposizione al governo…
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